Di Donatella Galasso
Dopo le recenti polemiche, più o meno circostanziate, suscitate da Achille Bonito Oliva a seguito di un suo editoriale, in cui il critico afferma che senza il sistema dell’arte e tutto quello che gira intorno ad un artista, l’opera d’arte in sè non avrebbe modo di emergere, non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa abbia provocato una risposta così smodata da parte di alcuni addetti ai lavori.
Quale scalpore dovrebbe suscitare il fatto che il mondo dell’arte sia da decenni refrattario pure alla semplice azione di guardarsi allo specchio?
Eppure, a parte l’autoreferenzalità, l’arte contemporanea italiana di problemi ne ha molti e non di poco conto. Perché ad esempio non si è mai aperta una seria riflessione sul fatto che gli artisti italiani non sono invitati quasi mai agli appuntamenti internazionali?
Qualcuno si è accorto, oppure si è fatto finta di non vedere, che il valore di un artista non è determinato dal solo linguaggio espressivo delle sue opere, ma dal potere e dalle connessioni a livello internazionale che hanno i galleristi che li rappresentano?
La capacità italiana di far emergere i propri artisti è stata e tuttora rimane molto più marginale (in certi periodi addirittura assente) per dinamiche di ordine culturale, storico e soprattutto geopolitico.
Diversamente dall’America, che a partire dal 1913, attraverso l’Harmory Show fece esplodere l’interesse per le avanguardie, con la conseguente nascita di un florido mercato dell’arte.
Ma qui bisognerebbe aprire il capitolo di come le supremazie geopolitiche, gli interessi economici e quanti altri obiettivi non dichiarati abbiano influenzato e direzionato una certo filone o linguaggio artistico a discapito di altri.
Se si potessero infatti collegare in un grande diorama alcuni temi ricorrenti trattati nelle opere d’arte contemporanea verrebbero fuori essenzialmente tre macro argomenti:
- 1 – La dissezione fisica e psicologica del corpo umano in ogni forma e manifestazione
- 2- Le guerre e le loro conseguenze (migrazioni, povertà, terrorismo)
- 3- La deificazione dell’oggetto fino al punto più estremo e grottesco.
E gli artisti odierni, a parte rare eccezioni, essendosi piegati a nutrire e ad alimentare tali tematiche nella loro ricerca hanno – in modo più o meno consapevole – alimentato una deriva da cui nessuno sa bene come uscire.
Senza un sistema dell’arte ben rodato, fatto di collezionisti, galleristi, curatori e giornalisti di settore che hanno esaltato che seguiva una determinata tendenza a discapito di altre, certe opere non sarebbero mai state vendute a prezzi folli o usate anche come asset per speculare.
Emblematico è quanto scrisse Francesco Poli nel suo saggio Il sistema dell’arte contemporanea: “In passato, affrontare le problematiche dell’arte contemporanea dal punto di vista sociologico, considerando l’opera d’arte come un prodotto commerciale, sembrava essere un approccio che esulava da una corretta analisi di storia dell’arte, intesa come studio di valori qualitativi. Ma successivamente è diventato sempre più chiaro il fatto che lo studio dell’interconnessione fra valore artistico e valore economico è di fondamentale importanza per comprendere il senso complessivo della produzione artistica come fenomeno peculiare della nostra cultura.”
Considerare l’opera d’arte come merce inserita all’interno di un sistema liberista, non deve però farci correre l’errore di dimenticare che il messaggio di un’opera d’arte è quanto più potente quanto più il suo valore artistico è determinato dal suo valore economico, globalmente riconosciuto.
Quindi trasformare un’opera in una merce accessibile a pochi, ha una duplice funzione: esaltare il messaggio in essa contenuto, legittimarlo e allo stesso tempo farlo diventare un potente mezzo per influenzare gli artisti, facendogli credere di essere liberi di creare e scandalizzare, quando è invero l’esatto contrario.
Poiché è la realtà ad essere scandalosa e non l’opera, quest’ultima ha avuto piuttosto la funzione di normalizzare e far accettare certi topos che si sono radicati nella società.
Un esempio è quello dell’artista bohémien, privo di sostentamento economico e disposto a rinunciare a tutto per affermare le sue idee. Esso è stato in gran parte frutto di una narrazione non realistica, come ben teorizzato nel fondamentale saggio Di Ernst Kris e Otto Kurz “La leggenda dell’artista” che mostra come, in un senso o nell’altro è facile creare delle mitologie sulla vita degli artisti.
Come pure la figura dell’artista che grazie ad un’idea geniale arriva al successo saltando ogni tappa ed arriva a vendere sue opere a prezzi folli.
Ebbene, queste figure non solo sono una minoranza, ma fanno parte di un sistema economico e finanziario deprecabile che mortifica la creazione artistica e la rende serva di un sistema speculativo.
In tutta questa disamina bisogna come sempre ribadire che esiste un grande assente: il pubblico.
Il quale non comprende l’arte contemporanea, perché quest’ultima continua ad essere un linguaggio non accessibile. Il pubblico numericamente scarno dell’arte contemporanea, soprattutto in Italia, va a vedere i musei senza capire nulla di quello che c’è dentro e forse, considerati certi contenuti, questo è pure un bene.
Infatti non si può negare che da Duchamp in poi, l’arte concettuale ha toccato sia alte vette, che voragini da far rabbrividire, per pochezza di qualità artistica e inconsistenza del messaggio veicolato.
In linea generale, da fine ‘800 in poi, si volle abbandonare tutto ciò che definiva la figura dell’artista, sia in termini artistici che istituzionali. Non passando più per le accademie, nè per la formazione nè per la successiva legittimazione, si sono aperti varchi in cui tutti i percorsi per arrivare ad essere artisti riconosciuti si sono destrutturati, fino all’estrema conseguenza di non avere più punti di riferimento stabili.
Ovviamente tale processo storico e culturale non è frutto di un’inaspettata e casuale evoluzione, ma di una complesso concorrere di situazioni e volontà che ci ha portato a vivere in questa situazione.
Nel 1975 Bourne scriveva:”Se prima si poteva credere che considerare le opere d’arte come merci fosse una esagerazione di determinismo economico, è ormai evidente che le nostre vite intere sono diventate così ampiamente definite in questi termini che ormai è impossibile pretendere il contrario. Non solamente le opere d’arte finiscono per essere merci, ma si ha la schiacciante sensazione che esse comincino la propria vita come merci.”
Se si vuole uscire dalla dicotomia artista vs sistema dell’arte o artista creato da sistema dell’arte è necessario che entrambi muoiano nella forma in cui li abbiamo conosciuti fino ad ora, e che dalle loro ceneri rinasca un nuovo modo di realizzare, pensare e fruire l’Arte.
Non solo è auspicabile, ma sarà un’inevitabile risposta ad un sistema in tutto e per tutto autoreferenziale.
“Misero è l’allievo che non riesce a superare il suo maestro
Leonardo da vinci
Di fatto fare l’artista in un certo modo per assecondare e sfruttare il sistema dell’arte, che sfrutta gli artisti come strumento del proprio potere pervasivo, sono due facce della stessa medaglia. Uno toglie all’altro, ma il risultato è sempre un indebolimento di entrambi, quanto mai visibile in particolare in quest’ultima fase.
Ci tengo infine a puntualizzare che la polemica su cosa determini il successo di un artista e sul suo non essere o non poter essere davvero indipendente dal sistema, risiede nel fatto che quando il grande pubblico non ha potere decisionale, ma subisce il “gusto” di un’élite è ovvio che l’artista non possa essere legittimato dal grande pubblico, se non in un secondo momento e solo attraverso sofisticate azioni di legittimazione mediatica.
Ed è esattamente quello che abbiamo osservato con la nascita dell’industria dell’intrattenimento a tutti i livelli.
Insomma, rimane ancora attualissimo il pensiero di Walter Benjamin quando scrive: “Uno dei compiti principali dell’Arte è sempre stato quello di creare esigenze che al momento non è in grado di soddisfare.”
Donatella Galasso