Di Lucrezia Lazzareschi
Un uomo e un artista, posto dalla Sorte proprio lì, allo spartiacque di una civiltà che stava mutando in altro, suggestionato ed attratto da entrambe, in un suo presente drammaticamente lacerato dalla tensione estrema che il futuro operava sul passato.
Prima di lui, anche se già da tempo in fase di mutazione: una società altamente sacrale, in cui tutto ruotava attorno al divino e al Trascendente; dopo di lui le tensioni di una società che tentava di affrancarsi da Dio, per porre l’Uomo con le sue indubitabili grandezze al centro dell’attenzione.
Firenze fu il cuore di questo epocale passaggio, e due uomini ne furono il simbolo: Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico, l’uomo del “nuovo” che stava venendo con tutte le sue aspettative e contraddizioni, e Girolamo Savonarola, il frate testimone del passato… o meglio di una Realtà che non muta né può mutare, perché ancorata alla dimensione dell’Eterno.
Finché visse il Magnifico i due mondi – eterno e divenire – si scontrarono ma convissero in dialogo. I due grandi uomini, Lorenzo e Girolamo, furono avversari leali e si stimarono fino all’ultimo.
E Michelangelo crebbe come uomo e come artista alla scuola del Magnifico, scolpendo indifferentemente fauni pagani e Madonne, ed ascoltando, allo stesso tempo, le invettive infuocate del frate contro le mollezze, i vizi e le idolatrie che corrompevano la corte medicea e la cara città.
Alla fine la visione sacra ed austera del mondo predicata dal Savonarola fu sconfitta. Alla breve esperienza della Repubblica fiorentina sostenuta dal carisma del frate predicatore tornarono le logiche del potere. Troppo spesso le istituzioni temporali e spirituali, alleate, si impongono su ogni fragile utopia.
E così al simbolico falò delle vanità che il povero frate idealista aveva acceso nel febbraio del 1497, per purificare la città da lussi, idolatrie e peccati, seguì, l’anno dopo, un falò ben più drammatico, nel quale arse col Savonarola una visone della Realtà che perdurava in Occidente da più di mille anni. Qui finì veramente quell’epoca che oggi definiamo Medioevo.
Alle prime luci del nuovo secolo un colosso di marmo bianco stupisce la città: il Davide appare sulla piazza della Signoria. Se quel “nuovo” vincitore aveva rivalorizzato le proporzioni, l’armonia, la bellezza dei corpi delle opere della Grecia classica, ora, dal genio del giovane scultore riceveva in dono qualcosa che andava oltre quello stesso ideale di bellezza giudicato, fino ad allora, insuperabile. Misteriosamente ed intimamente, dalla indiscussa perfezione anatomica del corpo umano, dalle perfette proporzioni, dalla sapiente, fluida ed elegante postura, appare una tensione spirituale che vibra ed emana da ogni parte.
No, non si torna indietro. Da millecinquecento anni il Cristianesimo indagava sulle misteriose “forme” dello Spirito, cercando di cogliere l’invisibile in quelle “rozze” figure che ornavano i capitelli romanici, le maestose facciate delle cattedrali gotiche. È tutto un universo interiore, non solo psicologico ed emotivo, ma veramente trascendente, che va oltre la natura, il pensiero umano, le sue emozioni, ed anche il suo lato inconscio.
Quel che l’arte sacra dei cosiddetti “secoli bui” aveva intravisto e portato in luce, in Michelangelo ancora traspare, sebbene la perfezione formale del visibile distrae dal ricercare le tracce di un Trascendente accennato.
La vicenda dell’arte accoglierà quella “distrazione” e sarà, d’ora in poi, un correre sempre più dietro alla esplorazione dell’umano, del naturale, nelle sue svariate manifestazioni. Quel colosso di quattro metri fu il manifesto dell’Uomo; ma l’itinerario artistico successivo non vide che quella “carne di marmo” era abitata da uno Spirito trascendente. L’attenzione fu rivolta sempre più all’uomo finito in se stesso, staccato da Colui che lo ha generato.
Si continuerà ancora a produrre opere a soggetto religioso, ma queste avranno un carattere sempre più naturalistico, sentimentalistico. La vera Arte Sacra, in quanto esplorazione e manifestazione del Soprannaturale, muore all’inizio dell’Era Moderna.
Ma come il corpo di Adamo, fatto di terra, privato del Soffio divino alla terra ritorna , così ciò che è natura, privata del suo Spirito trascendente va inesorabilmente a decomporsi.
Per questo inizia, con la morte dell’Arte Sacra, un inesorabile processo di morte dell’Arte tutta.
Il percorso dell’arte, dalla modernità alla post-modernità è la viva testimonianza di questo processo di decomposizione. Un processo lento, affascinante, poetico, ricco di languida o drammatica bellezza, ma pur tuttavia processo di morte.
È l’uomo che guarda solo in se stesso seppure in tutte le sue espressioni, fisiche, psicologiche ed inconsce; è l’uomo che guarda solo attraverso se stesso, sì che il mondo si fa opaco manifestando unicamente la crosta – fiorita o ruvida che sia – del suo involucro.
È l’artista che pone l’attenzione sul suo guardare più che sul Guardato che dovrebbe essere contemplato… è un processo di bellezza, sì, talvolta, ma anche di inesorabile degenerazione. È un percorso che segue ed è specchio della via intrapresa dall’Occidente.
Oggi l’ultima espressione di questo itinerario d’arte e di vita la troviamo in quella sorta di “Nichilismo gaio e fiorito” che ha nel cesso d’oro di Cattelan esposto e funzionante al Guggenheim di New York come un suo manifesto.
È il capolinea di un percorso.
“Se l’universo non è impegnato in un’avventura metafisica, tutto è banale.”
NICOLAS GOMEZ DAVILA
Michelangelo, lui no.
Lui, nell’arco della sua vita mortale, testimonia di aver intrapreso un’altra strada. Raggiunta la perfezione anatomica e stilistica in giovanissima età, con la Pietà del Vaticano, col Davide di Firenze, nella maturità porterà il suo lavoro ad esplorare altre forme espressive, indagando verso un Oltre lontano eppure nascosto e palpitante nel tessuto più intimo della materia.
Quell’Oltre che, appena intravisto nell’abbozzo della materia, fa del marmo un’opera d’arte. Sono i suoi non-finiti, che hanno nelle due Pietà della vecchiaia i suoi più grandi capolavori, le sue opere più sacre.
Sono la Pietà Bandini, custodita a Firenze e la Pietà Rondanini ora a Milano. Sono la rappresentazione di una Madre che sorregge un Figlio morto, quasi simbolo di una Chiesa che, dal suo tempo in poi, perde, anche lei, progressivamente, proprio quella forza sacrale testimone dell’Oltre da questo mondo.
Eppure in Michelangelo, proprio in quella crisi, in quella desolazione, in due opere apparentemente incompiute, emerge e prorompe con una forza estrema il Sacro, epifania dello Spirito trascendente.
Guardiamo la sua ultima Pietà, la Rondanini, guardiamo quella Madre che con una forza tutta spirituale cerca di sorreggere il Figlio che sta scivolando nelle profondità della terra. È allo stesso tempo una sepoltura e una resurrezione, uno sprofondare nella morte, ed un emergere frutto di un Amore che vince ogni disperazione.
Non sappiamo se Michelangelo volle appositamente lasciare incompiuta quest’opera come gli altri suoi non finiti, ma sorte volle che questo capolavoro a noi arrivasse così.
Spesso i grandi artisti veicolano un intento, una espressione che trascende loro stessi e la loro piena consapevolezza. I grandi capolavori seppur creati dalla mano di un artista acquistano vita propria, si impongono all’esistenza facendosi segno di ciò che misteriosamente vuol manifestarsi.
E allora guardiamo questa Pietà. Guardiamola bene.
Michelangelo non solo ha raggiunto, in quest’opera, in un balzo di mezzo millennio, tutta l’espressività dell’arte contemporanea; egli è andato ben oltre attendendoci là, nel tempo in cui l’arte e la cultura occidentale troveranno di nuovo nella materia – esplorata ormai nelle sue più recondite particolarità – quel soffio divino che la eternizza.
Lucrezia Lazzareschi