Come una crisalide che non sa quale farfalla far sbocciare, la Fotografia si paluda, si traveste, tenta miseramente di reinventarsi sotto le spoglie ora di meta-fotografia, di iper-fotografia, di trans-fotografia, per non parlare di quel pianeta ancora semi-sconosciuto, in via di formazione, che giace nell’universo dell’Intelligenza Artificiale quando applicata alla creazione di immagini.
Significativo per noi scorgere in queste mutazioni – centrifughe rispetto alla quintessenza fotografica – la ricerca di un’àncora per tener saldo anche un esile legame colla fotografia originaria, quella di matrice analogica – tant’è che la famigerata quanto famosa foto vincente nel premio mondiale indetto dalla Sony, prodotta con l’A.I., reca in alto a sinistra due visibilissime tracce, ancorché artatamente messe lì a bell’apposta, di graffi che null’altro sono che peculiari testimonianze di una manualità, di una artigianalità intese nella loro più nobile accezione.
Segno che quei “segni” servono o vorrebbero servire a render testimonianza che “molto di umano” rimane nell’operato dell’A.I. No comment: abbiamo già espresso in questa sito la nostra opinione sull’A.I. Giova non ripetersi.
Altrettanto significativo la notizia di pochi giorni orsono che la dernière vague di una ultra-nota fotocamera digitale riporterà un set di programmazione capace di introdurre errori e sbagli attinenti al mondo analogico!
Bella “MATRIX” con cui fingerci umani, sin troppo umani ma di una “umanità” così deleteria come illustrava un video, anch’esso recente, di come sia deflagrata attorno ad una quasi omologa camera digitale una querelle al calor bianco intrisa di vero e proprio odio tra un fronte ghibellino e l’altro guelfo, quanto mai inappropriato.
“Una foto non si scatta, si crea.
Ansel Adams
Solo un’arte che vuol ruotare attorno al mezzo con cui la si attua può scendere così in basso, così in vera cloaca: mai sentito pittori intessere una diatriba sui pennelli e sulle loro setole, invece deleteri fotografi lo fanno. Segno dei tempi. Segno che si ama rimirare il dito e obnubilare la bellezza della Luna.
Chi invece punta in maniera diritta alla Luna è Cesare Di Liborio.
Non un quidam qualsiasi innanzitutto: ha esposto in personali e collettive sia in Italia sia all’estero. Ha all’attivo libri sulla sua ricerca fotografica contenenti testi di Jacques Le Goff; C.H. Favrod; Italo Zannier; Michèle Moutashar; Xavier Canonne; Antonella Anedda et alii.
Immagini sue sono presenti nelle collezioni di: Bibliotheque Nationale de France, Musée Reattu, Arles, Musée de la Photographie, Charleroi, Archivio Italo Zannier, Venezia, Maison Européenne de la Photographie, Parigi, Victoria & Albert Museum, Londra, J. Paul Getty Museum, Los Angeles, Fondazione Giulia Maramotti, Reggio Emilia, Detuschen Centrum für Photographie, Kunstbibliothek, Berlino, CSAC Centro Studi Archivio della Comunicazione, Parma ecc.
Di Liborio, partito con un rigoroso bianco & nero, che non ha mai più abbandonato, è approdato anni fa ad una speciale tecnica – si potrebbe spingersi a dire alchimista – con cui “setaccia” la gelatina, la “asporta” per così dire e vi inserisce materiali compositi, vari nelle loro essenze in un procedimento che potrebbe ricordare la formazione di una pietra che ci è particolare cara, l’ambra.
Il risultato è di una eleganza incomparabile, non ci sono altri termini per definirla. Si è parlato tanto dell’eleganza insita e coltivata da Giovanni Gastel nel rappresentare un immaginario di “donna” muliebre e sensuale alla medesima stregua ma le “donne” ritratte da Cesare – lasciatecelo dire – sono impareggiabili nella loro delicatezza e forza allo stesso tempo.
Ognuno dovrebbe avere una preziosa stampa – la chiamiamo così anche se il lemma è riduttivo assai per queste opere che galleggiano a metà via tra pittura e fotografia, vorremmo dirle ”luceforte” al posto di acquaforte – in casa: sarebbe un talismano apotropaico contro la infinita bruttura dei nostri giorni.