La categoria del “Sublime” nasce nei tempi remoti dell’antichità ed attraversa nella considerazione dei pensatori varie prospettive, che si traducono poi nelle diverse accezioni di significato di cui da una epoca all’altra si è colorita.
Sopravanzando sempre tuttavia la categoria del Bello, che pure eleva l’animo di chi lo contempla, portandolo in una dimensione di armonia dalla quale non si vorrebbe tornare giacché vi si può vivere continuativamente.
Mentre il Sublime, più che offrire un alveo nel quale adagiarsi per gioire della propria beatitudine, ci scuote, prendendoci alla sprovvista, e rivelandoci qualcosa che appare percepibile – quindi raggiungibile almeno con i sensi – ma al contempo remoto, al limitare stesso della nostra dimensione umana ed al confine col divino.
Qualcosa che, nell’elevarci dalla nostra condizione finita e materiale, ci porta dove i limiti vengono meno, così come le certezze; l’emozione che da lì in poi ne scaturisce è tanto intensa da toglierci il respiro ed incuterci timore.
Quando in origine, attraverso un trattato un autore anonimo concepisce il concetto di “Sublime”, si concentra sugli effetti che l’opera d’Arte – come pure le manifestazioni naturali che la ispirano – produce sul nostro sentire, più ancora che sulle caratteristiche fisiche del fenomeno considerato come Sublime.
Ossia cerca la ragione per cui un evento naturale o un manufatto creato dalla mano dell’uomo in stato di grazia, riesce a strapparci dalla vaga assenza del quotidiano per porci innanzi all’infinito, con la massima presenza di cui siamo capaci.
È infatti la vertigine la sensazione fisiologica che accompagna la percezione del Sublime, vertigine a cui più di recente è stata data la descrizione di “Sindrome di Stendhal”, volendone sottolineare macroscopici effetti sulla nostra fisiologia, fino alla perdita di sensi.
Ognuno di noi, che se ne renda conto o no, ogni istante della propria vita in cui ha un sufficiente contatto con il proprio sé, ricerca la dimensione del Sublime. Ossia qualcosa che permetta di percepire quanto più vasta della comune quotidianità è la vita umana nella sua pienezza.
Soprattutto dal Settecento in poi il concetto del Sublime ha conosciuto fortuna filosofica e successive definizioni delle sue sfaccettature: dal “Terrificante che affascina” di Burke, che apre le porte al Romanticismo, al “Brivido dell’Abisso” di Schiller fino al “Superamento del puramente Piacevole” che Shopenhauer prefigura come via per giungere – appunto attraverso il Sublime – alla contemplazione non più dell’oggetto/fenomeno in sé ma dell’idea trascendente che esso rappresenta.
Da sempre questo è stato il compito che l’Arte si è data: offrire, attraverso l’esperienza delle opere che colgono nel segno, una scossa alla coscienza che ci ricordi l’esistenza stessa dell’infinito e sposti un pò più in avanti la nostra capacità di coglierne l’immisurabile vastità, avvicinandosi ai limiti con il nostro sentire senza mai – come la curva asintotica – poterne avere contatto, ma conseguendo un entropico quanto permanente ampliamento coscienziale.
Un compito, quello dell’Arte, di cui venivano tramandati da maestro ad allievo gli strumenti tecnici e le pratiche utili a conseguirlo, attraverso l’esempio, lo studio e l’esercizio. Mentre la spinta morale, l’anelito verso l’ineffabile era il risultato delle capacità di ogni artista di assorbirne la via dal proprio insegnante e proseguire poi lungo il cammino, superandosi.
Tutto questo si è interrotto nel momento in cui la decisione di tagliare con il passato è diventato il credo unico dell’arte. La necessità di “andare avanti”, liberandosi da quelli che improvvisamente vengono descritti come impacci al “progresso”, magica quanto inesatta parola per slogan facili quanto pervasivi, è diventata la linea per fare entrare l’arte in una nuova fase antropologica.
Ed il più macroscopico effetto che questa direzione intellettualistica impressa al cammino di ricerca ha determinato è che repentinamente la dimensione del Sublime nell’arte ha iniziato a tacere. Un silenzio assordante, essendo stato fino a quel momento l’humus da cui tortuosamente i nostri pensieri prendono origine.
Insomma il cibo originario per la nostra essenza di umani, la spinta verso l’infinito, è stata vista come qualcosa che non più la speculazione metafisica, ma la tecnologia più materialistica, può offrirci come promessa allettante. Tra l’altro, non una tecnologia che materialmente liberi le nostre esistenze da impacci pratici, ma anzi che introduce ulteriori complicanze, inefficienze e controlli.
Mentre nei luoghi in cui l’arte celebra i propri rituali, a prendere la parola in modo chiassoso ed arrogante ecco sopraggiunte le categorie della “Sorpresa” della “Popolarità” e della “Eccitazione”, miscelate in diverse proporzioni all’interno dell’immancabile brodo in cui viene cucinato il marketing: lo “Scandalo” come strumento di pianificazione del consenso.
“Il ritmo ha qualcosa di magico; ci fa perfino credere che il sublime ci appartenga.”
Johann Wolfgang Goethe
Le prime tre categorie in precedenza facevano parte della dimensione popolare dello spettacolo, ambulante e fisso, mentre la quarta, peraltro vecchia come il mondo, da elemento aleatorio e fortuito è diventato l’ingrediente portante e pianificato senza il quale nessun risultato (monetariamente) degno di nota è realizzabile.
Il “Sublime” si è ritirato quindi nelle manifestazioni naturali laddove l’ambiente non risente delle trasformazioni a nostro uso e consumo, e solo là possiamo – cercandola come esploratori – udirne ancora la voce. Che ci ricorda sprazzi di verità come solo l’infinito, attraverso la vertigine che sempre lo accompagna, può fare.
Ma il “Sublime” sta alla nostra vita come l’aria sta ai nostri polmoni e, per non viverlo solamente da spettatori di Madre Natura, possiamo – e oggi dobbiamo – coltivarlo con umiltà e perseveranza nella pratica dell’Arte: se saremo connessi con le forze più pure, allora un dettaglio, un colore, un’espressione, un materiale, una tessitura di superficie, un alone, o qualsiasi altro aspetto dell’opera da noi creata potrà dare a chi la contempla quel brivido inconfondibile che l’immensità infonde.
Un ringraziamento a Toni Cervo per le immagini selezionate.