Tra le Lettere alla Redazione che i nostri lettori ci inviano periodicamente, questa colpisce per il tono diretto e franco, che riporta senza infingimenti l‘esperienza personale del lettore nel suo rapporto con l’Arte, calata in un tempo che mai come ora disorienta, ma al contempo è ricco di stimoli forti per creare.
Di Antonio Pompili
C’è un problema che mi assilla ogni volta che prendo in mano un pennello. Non è il fatto che ciò che andrò a dipingere potrà non essere capito da chi vedrà il mio lavoro e non è nemmeno che forse pochissime persone vedranno ciò per cui ho speso energie e tempo.
Il problema non è nemmeno che cosa andrò a dipingere: come diceva Massimo Stefani nel Manifesto Arcaista, citando Foscolo, “l’Arte non consiste nel rappresentare cose nuove, ma nel farlo con novità”. E, aggiungo io, bisogna farlo nel modo giusto, interpretando il tempo che si vive.
Il mio problema quindi è “come” esternare l’energia che avverto in me, ovvero trovare il giusto linguaggio valido per me e per la società in cui vivo. Non è che voglio lasciarmi influenzare da ciò che mi sta attorno, casomai per scopiazzare o corteggiare gli ambienti artistici. Per quanto mi riguarda vorrei che un opera d’arte diventasse una freccia silenziosa che va a colpire al centro del cuore chiunque la guardi.
Vorrei che diventasse una mina che esplode alle fondamenta di questo enorme e perverso sistema di vita, vorrei che facesse spalancare nella testa delle persone le grandi domande esistenziali: chi sono io? che cosa è la realtà? cosa è lo spirito e cosa sono le passioni?
Nel cercare di risolvere questa impasse, mi trovo come sospeso tra l’incudine ed il martello. L’incudine è rappresentata dall’esplosione di creatività del ‘900 con tutte le sue correnti artistiche che hanno indagato le forme ed il colore a 360 gradi e che ritengo abbiano in qualche modo chiuso il cerchio con le varie forme di astrattismo, il martello è la cosiddetta Società dello Spettacolo (vedi G.Debord), l’Iperrealtà (J.Baudrillard) e il nascente mondo virtuale che inondano e intasano l’immaginario (secondo i fini del potere).
Quindi la freccia deve essere ben appuntita per farsi breccia nell’anima dello spettatore, deve schivare le insidie dell’ambizione, dei corteggiatori, dei manipolatori e del proprio ego; insomma è un lavoro a tempo pieno, esteriore ed interiore, anche per chi si deve guadagnare lo stipendio.
Alcuni punti ho individuato nel mio percorso.
Innanzitutto tra la perversione dell’arte (di cui lo Ieroglifo approfondisce bene le dinamiche), e l’esasperazione della tecnica (vedi iperrealismo, installazioni) ciò che a mio avviso oggi è carente è il cuore dell’arte: la sua generosità, la spontaneità, la sincera ricerca intellettuale, il voler raccontare il mondo; in sintesi la tensione tra la materia e lo spirito, tra la terra e il cielo, tra il quotidiano e l’utopia, creare senso in una società profondamente nichilista o ipocrita.
In secondo piano la ben nota ed indagata questione della “tecnica”: questa si è spinta ad un tale livello da poter intasare, invadere e manipolare lo spazio immaginale dell’individuo. E l’arte è uno dei territori su cui avviene tale scontro (assieme all’informazione, la moda e la cultura in genere). Esperienze immersive, 3d, il metaverso: l’obbiettivo del potere non è più il controllo fisico e biopolitico dell’individuo, ma quello psicologico ed immaginale, cosa che nemmeno le varie dittature del ‘900 avevano ipotizzato in modo così capillare.
“Ciò che è essenziale ha generosità sconosciute all’esagerazione”
Fabrizio Caramagna
Al mondo virtualizzato, alienato, reificato e simulato occorre rispondere con ciò che da sempre hanno cercato di dipingere i pittori, evocare i musicisti, scolpire gli scultori: l’invisibile, l’essenza e l’origine delle cose, la poesia. La metafisica, l’iconologia, l’astrattismo di Kandinskji, la ricerca surrealista, solo per fare alcuni esempi. Oggi questa è una battaglia di resistenza: siamo disgregati, confusi e diffidenti. Benvengano esperienze come quella dell’Ippogrifo.
Infine la radice del dipingere. Quante volte mi sono domandato “ma chi me lo fa fare? tanta energia per cosa? visto che per vivere lavoro…” e robe del genere che sono certo tutti abbiamo passato. Quante volte ho smesso e ricominciato. Poi un giorno, visitando le pitture rupestri della Valcamonica ho incontrato il saggio di George Bataille “Lascaux, la nascita dell’arte”, l’uomo primitivo che viveva nelle caverne, che lottava con gli animali per sopravvivere, meraviglia delle meraviglie comincia a disegnare animali sulle pareti.
Beh, non dico nulla per chi ancora non lo ha letto, però mi sono convinto che chiunque dipinge abbia la profonda fede di voler rappresentare qualcosa che esiste in qualche posto, dimensione, immaginario o aldilà che sia. Altrimenti non passerebbe tante giornate a combattere con una tela bianca.
A questo punto torno al principio, al problema che sempre mi assilla e come ho cercato di risolverlo. Ecco, non lo so, ancora la faccenda non mi è del tutto chiara, certe volte mi sento spremuto davanti al cavalletto, altre volte metto a parlare con i ritratti che sto facendo e mi vado a rivedere i video (su youtube) di Ligabue che faceva i versi degli animali o dei riti propiziatori prima di cominciare a dipingere, e penso che quella sia davvero la strada giusta.
Antonio Pompili