Pur consci che la critica tutta è incapacitata, gioco forza, non solo a sussumere ma anche ad indagare l’intierezza del plateau dell’offerta fotografica che si auto-produce a mo’ di metastasi, con una cadenza che centuplica le proposte, causa e grazie anche la gamma dei soi disant “istituti” di varia natura, votati a sfornare orde di disoccupati-fotografi con la chimera di incarnarsi in foto-professionisti, non ci si può capacitare che sia potuta sfuggire all’occhiuta forza indagatrice della suddetta critica un’opera così dirompente, lacerante come quella siglata da Simone Casetta che porta, per soprammercato, il magnetico titolo: “Fan finta di non esserci”.
E si che Casetta non è certo un quidam nel contesto fotografico, tutt’altro. Qui ne diamo un breve cenno biografico. Nato a Milano, ha iniziato giovanissimo a prestare assistenza nella camera oscura di Gianni Greguoli e successivamente a fotografare persone, realizzando ritratti e reportage.
Nel 1975, come assistente del fotografo Luciano Ferri, ha viaggiato a lungo in Pakistan al seguito del grafico Dante Bighi per la produzione di un libro commissionato dal governo locale.
Questa esperienza ha segnato il successivo interesse e coinvolgimento in tematiche sociali come la distribuzione delle risorse alimentari, il dialogo tra le religioni, e nei grandi temi come la guarigione e la percezione della morte nelle diverse culture. Il suo lavoro, strutturatosi con innumerevoli incarichi editoriali, si concentra oggi nella produzione di progetti editoriali e espositivi, anche multi-mediali.
Attualmente sta lavorando al “Registro Fotografico dei Poeti Italiani”, una serie di 200 ritratti di cui 140 già realizzati. Ha esposto le proprie opere in mostre collettive e personali in Italia, Francia, Austria e Svizzera, e pubblicato su molte delle più importanti testate italiane e straniere.
Esperto nella stampa fotografica a colori, in bianco e nero e al platino-palladio, tratta i materiali sensibili nella propria camera oscura e realizza personalmente le proprie tirature. Dal 2007 è docente di “Linguaggio e pratica del racconto fotografico” presso l’ISIA di Urbino.
Se ciò non bastasse a qualificarlo attore di rilievo nel rutilante circo fotografico l’entità da lui messa in piedi, dal sintomatico ed azzeccatissimo nome “Conservatorio della Fotografia”, potrebbe e dovere bastare a tributargli nel suddetto milieu (sebbene temiamo il nemo propheta in Patria…) il merito che gli è dovuto.
Nel cuore di tenebra della Brianza più remota, il casale che incarna appunto le sembianze di un autentico Conservatorio fotografico si palesa agli occhi del visitatore come un Giardino delle Meraviglie. Tanto per citare solo alcuni dei tasselli di questo fascinoso mosaico fotografico vi scorgiamo un banco ottico mostruoso, capace di accogliere negativi a lenzuolo: 50 per 60 centimetri, tale e quale la macchina fotografica che la Polaroid fece circolare negli anni ’90 presso alcuni fotografi di estremo grido.
Per non dire di banchi ottici normali (?) 20×25 cm. ecc. ecc. o di mega ingranditori tipo i famosi Laborator della mitica Durst sino al formato 13×18 cm., nonché un macchinario professionale per sviluppare e stampare il colore grande come una parete di casa. Ma a parte questa mirabilia tecnica ma comunque testimone di una sopraffina cultura dei mezzi fotografici, questo fortino analogico, sorta di roccaforte dell’analogico, cattedrale nel deserto della pochezza fotografica, pare attendere l’arrivo dei Tartari come insegnava Buzzati.
E i Tartari son lì fuori, intenti in una critica che non sa vedere oltre al proprio naso, tutta intenta in visioni stereotipate e discorsisimi tautologici. Sarà per questo che il portfolio di Casetta Fan finta di non esserci non ha avuto il rilievo che si sarebbe meritato, a parte la concretizzazione in un bel volume. Fan finta di non esserci è una collana di perle costituita da ritratti eseguiti in un Istituto di Anatomia, ritratti che risplendono di un fulgore abbacinante, di una intensissima fascinazione a pieno dispetto della tematica affrontata che non ha nulla di rallegrante.
Si converrà che pietra miliare di ogni costruzione fotografica è la scelta primigenia da parte del fotografo del tipo di soggetto da ritrarre. Fin troppo evidente che l’Inusuale, il flamboyant, l’Esotismo Estremo, il Bizzarro, l’Inconsueto, l’Irraggiungibile costituiscono un ghiotto ed ambito punto di partenza per ogni scatto che cerca degna ricognizione.
Si ricorderà a questo proposito una lunga serie di ritratti aventi come soggetti persone apicali nell’ambiente milanese a firma di Giovanni Gastel come l’annosa ricerca su onuste architetture di interni a firma di Massimo Listri, giocata anche sul saper spalancare porte e portoni invalicabili ai comuni mortali: senza nulla togliere alla bravura di entrambi i fotografi citati si riconoscerà che l’accesso, per così dire, a soggetti così flamboyant assicura già buona parte del successo dello scatto.
“Non puoi affermare di aver visto qualcosa se prima non l’hai fotografato”.
Émile Zola
Da un punto di vista paradossale quegli scatti li avrebbe resi tali anche Ray Charles, tanto si basano sulla potenza deflagrante del soggetto medesimo. Chiudiamo qui, sbarazzandoci o facendo finta di farlo, di un sassolino conficcatosi tra la tomaia e la suola: vano, vacuo e volgare è il tentativo smaccato da parte di alcuni tetragoni – di casa nostra – di certi paesaggisti (fotografi), per lo più americani, in gran spolvero negli anni ’90, parliamo di Robert Adams, Lewis Baltz, Stephen Shore ed altri (chiamati i “Nuovi Topografi”), di osservare che la ritrattistica fotografica deve farla finita una volta per tutte di suscitare emozioni, pathos, di toccare insomma le corde di chi guarda, di chi osserva un’immagine, a favore di una glaciale oggettività, priva di ogni senso personalistico, scevra da filtri estetici.
Infatti tanto fotografi di ricerca quanto quelli cosiddetti “commerciali” producono immagini non tramite l’apparecchio fotografico ma come se le scattassero con una fotocopiatrice, tanto sono “perfette”, inanimate, glaciali, non aggiungono, non sovrappongono nulla all’immagine che l’immagine stessa. Pur essendo alcuni di loro architetti, si comportano come se chi scatta fosse un mero geometra, o un topografo tutto techne.
Non per nulla quella banda a stelle e strisce si appellava “nuovi topografi”.
Su questo sentiero questi “alcuni” hanno di già perso il passo da tempo: le foto – ma sarebbe più attinente chiamarle “iconografie” in quanto la luce in cui avvengono è sintetica, falsa, “emesse” dall’A.I. – sono di già tutte prive di pathos.
Ricordiamo che dove non c’è pathos non c’è neanche ethos. Vieppiù alla luce di ciò la ricerca di Simone Casetta assume una luce ancora più fulgida.