Bernard Berenson fu uno storico dell’Arte leggendario, poiché la sua firma sulle attribuzioni di opere determinò all’inizio del Novecento la nascita delle più prestigiose collezioni private americane di maestri del Rinascimento Italiano, alcune delle quali poi divenute istituzioni museali.
Anche per questo è stato storicizzato in una categoria a sé, tanto il suo nome giganteggia per prestigio su quello dei suoi colleghi.
Eppure con la sua morte nel 1959, le trasformazioni vorticose del mondo relegarono quella concezione dell’Arte di cui egli fu raffinato teorico in una preistoria mitologica, dorata e distante: insomma un campione della vecchia scuola, senz’altro da ammirare, ma irrevocabilmente superato dall’incalzare degli eventi globali.
Dopo l’avvento della televisione, del boom industriale ed economico, la nascita del digitale, di Internet, dei social network, e con la pressione continua di nuovi gadget tecnologici in ogni settore, la sua minuta ed elegante figura di anziano gentiluomo d’altri tempi appare infatti remota e incompatibile con le istanze di una società che parla hip hop e si muove tik tok.
Questo almeno è quello che ci vuole far credere chi, pur operando ai vertici del dibattito artistico, considera in cuor suo l’Arte come una simpatica e stimolante emanazione della civiltà, ad essa conseguente, e non come il motore teoretico, il fondamento antropologico della civiltà stessa.
Ma è realmente cosi? Oppure guardando la cosa da un livello di osservazione ancora più alto si scorgono altri significati?
Innanzitutto Bernard Berenson completò l’enunciazione della sua teoria dell’Arte nei primissimi anni del ventesimo secolo, e da quel momento fino alla sua morte i suoi scritti si limitarono a precisare, rifinire e dettagliare quei concetti già compiuti.
Quello che doveva dire, insomma lo aveva detto prima dello scoppio della prima guerra mondiale. E proprio quel primo conflitto – che avrebbe poi condotto ad un secondo, e a molti altri scontri regionali in seguito in tutto il mondo – appiccò il fuoco alla storia di tutto il secolo, facendone tracimare gli effetti fino ai giorni nostri.
E cambiò lo scenario del dibattito culturale introducendo la variabile della tragedia, dell’urgenza e quindi dell’instabilità sociale. La guerra infatti, sia essa calda, fredda, cinetica, biologica, finanziaria o culturale, inevitabilmente accelera i cambiamenti sociali, alza il tono del dibattito e distrae dai temi universali, incanalando l’attenzione su altri, più utili a favorire risultati desiderati e progettati.
Abbiamo imparato in questi decenni che le guerre non scoppiano per fortuita ed inevitabile “autocombustione”, ma sono al contrario pianificate per ottenere cambi di equilibri geopolitici diversamente non ottenibili.
Traumi e risposte
Ora, se guardiamo al Ventesimo Secolo da questo punto di vista, ci renderemo conto che il succedersi vorticoso di movimenti culturali che lo ha caratterizzato e che per alcuni è sintomo di vivacità creativa, può essere altrimenti considerato come una pavloviana risposta del corpo sociale – nella persona degli artisti e degli intellettuali – alla somministrazione di un trauma fatto di cupa e spietata violenza, che la guerra infligge inevitabilmente alla psiche collettiva.
Solo evocando le parole chiave “Secolo di Guerre Mondiali” nella memoria di chiunque, si aprono files con strazianti scene di trincea e morti per baionetta nella prima guerra, quindi con la successiva ascesa dei totalitarismi in europa, le immense distruzioni della seconda, culminate con lo shock dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, l’olocausto perpetrato nei campi di concentramento, tutti i conflitti regionali – medioriente, vietnam, guerra del golfo, balcani, oltre al periodo della guerra fredda, che lo stravolgimento di quelli mondiali ha portato con sé. E che continua fino ai giorni nostri, come tutti noi vediamo con tragica chiarezza.
Anche guardando agli eventi che nel secolo definito “breve” (!) sono visti come grandi conquiste collettive, il boom economico, l’affermarsi della società di massa, la caduta del muro di Berlino, l’avvento di Internet e in seguito dei social network, e oggi la tecnologia assurta a tecnocrazia con il fulmineo e pervasivo ingresso dell’Intelligenza Artificiale nella vita di tutti, se ne vede comunque la natura di risultato indotto dal trauma che l’elemento “guerra” produce quando introdotto nella Storia al fine di direzionarla.
Insomma se non suonasse come una boutade paradossale, ci sarebbe quasi da concludere che, per evitare di “rispondere” a tono alle idee di Berenson sull’Arte, enunciate in una temperie in cui la categoria della contemplazione non era stata travolta dal clamore delle bombe, si è somministrata una dose d’urto di violenza bellica alla psiche collettiva per “distrarla” da un discorso “alto”, governato dalla luce dell’intelletto, direzionandola senza darlo a vedere verso un dibattito governato invece dalle emozioni e dagli istinti, come accade nelle situazioni di emergenza.
D’altronde sono le date a dirci che Berenson è un intellettuale pre-pavloviano e coloro che lo succedettero sono inevitabilmente post-pavloviani. Intellettuali la cui speculazione teorica in merito alla creatività umana prende in prestito categorie, concetti e persino parole che altre menti in altre stanze hanno preparato affinché diventassero unità elementari del dibattito, mattoni costitutivi dell’edificio culturale.
Che si pensano autori quando essi stessi, in congiunzione con i loro scritti teoretici, sono invece pieces teatrali che altri creatori, di più vasto e imprevedibile estro, hanno scritto ad uso e consumo – soprattutto consumo – della platea globale.
Se, per avere una istantanea della situazione, facessimo visita alle principali fiere d’arte mondiali o, molto più banalmente digitassimo “arte contemporanea” sulla ricerca immagini di google, ci si presenterebbe un colpo d’occhio in cui, attraverso il colore come arma primaria, l’abnormità dimensionale come arma secondaria, il simbolismo come linguaggio utilizzato senza conoscerne le conseguenze, una caotica congerie di opere gareggia per guadagnare l’attenzione del nostro occhio, che dopo essere stato stimolato in modo volutamente traumatico da un attimo di stupore, chiede di passare ad altro stimolo, ormai imagodipendente assuefatto, bisognoso di una dose giornaliera sempre crescente di roba da consumare.
“Lo stato naturale dell’uomo del ventesimo secolo è l’ansia”
Norman Mailer
Insomma, i principi attivi, i dosaggi e le proporzioni sono decisivi non solo per le piante, che da curative possono diventare mortali, ma anche per l’Arte che trasformata a monte da chi ne conosce realmente il potere immenso – e non sembrano ahimé al momento essere gli artisti, anch’essi opportunamente pavlovianizzati e orgogliosi quindi di seguire mode progettate altrove – è stata tramutata in pozione per rendere tossicodipendente l’intera civiltà consumista dell’immagine.
Ma alla fine cosa diceva Bernard Berenson sull’Arte da essere considerato così categoricamente altro da quanto i suoi più giovani colleghi, nel corso del secolo breve e finanche ai nostri giorni – ancora perennemente scossi dal succedersi delle guerre e dalle loro cugine minori, le emergenze – hanno scritto, detto e per ultimo ora veicolato sulle reti sociali?
Data la vastità di conseguenze che i suoi concetti comportano, nel respiro di un articolo come questo se ne può al massimo dare un estratto o un enunciato, riservando un approfondimento in una sede più adatta, come un libro, ad esempio.
Berenson innanzitutto considerava quello della pittura il linguaggio artistico più inclusivo, come si direbbe oggi e quello dei Valori Tattili uno dei concetti più centrali della sua teorizzazione.
Direttamente le sue parole ci dicono che “i valori tattili si trovano nelle rappresentazioni di oggetti solidi allorché questi non sono semplicemente imitati (non importa con quanta veridicità) ma presentati in un modo che stimola l’immaginazione a sentirne il volume, soppesarli, rendersi conto della loro resistenza potenziale, misurare la loro distanza da noi, e che ci incoraggia, sempre nell’immaginazione, a metterci in stretto contatto con essi, ad afferrarli, abbracciarli o girar loro intorno”.
Ora se guardiamo con gli occhiali di Berenson la Pala di Brera di Piero della Francesca, di cui sopra vediamo alcuni dettagli significativi, notiamo che, al di là del movente religioso che ne determina l’iconografia di base, e della conquista geometrica della prospettiva che all’epoca determinò un salto epocale nella percezione del mondo e nella coscienza dell’Arte, è la padronanza metafisica della Forma in sé del maestro che conduce il dipinto al di là delle categorie di linguaggio, di stile, di cultura di riferimento, per collocarlo, in quanto opera sublimemente astratta in un limbo atemporale, a cui appartengono le opere universali.
Ovviamente uno studioso d’arte post-pavloviano come Arthur Danto considererebbe quel limbo che vien da chiamare con il termine ad ampio spettro “classicità” un vecchiume del tutto superato e reso anacronistico per esempio dalle vette della pop-art rappresentate dal tautologico capolavoro warholiano “Brillo”, in forza del quale il prode addetto ai lavori ha tirato in ballo il solito frusto argomento della “fine dell’arte” quando nel caso della cassetta serigrafata si tratta invece di “inizio di marketing” globalista esplicito – ora perfettamente riconoscibile – passati gli anni.
Se guardiamo infatti con gli occhiali del “Senso della Qualità” che Berenson usa come massimo criterio di valutazione di un opera, “Brillo” non tenta nemmeno di evocare l’originale a cui si riferisce, instaurando con lo spettatore un colloquio silente e poetico, anzi al contrario ne fa aperta parodia, distinguendosene volutamente in peggio, ma facendo si che l’originale in quanto “prodotto brandizzato di massa” venga sacralizzato nell’empireo dell’Arte e il concetto di merce che porta con sé salga artificiosamente dove non avrebbe modo di salire senza l’artifizio dell’ingegneria sociale.
Ma torniamo ancora brevemente a Bernard, il cui discorso di un certo peso è stato interrotto e non più ripreso causa conflitti e distrazioni varie.
Quello che era l’Arte per lui, ossia l’elemento Intensificatore di Vita che agisce in modo duraturo a partire da un momento di grazia contemplativa (nei casi più forti tale da produrre persino alterazioni biofisiche, e denominato qualche decennio fa Sindrome di Stendhal) diventa negli effetti dell’arte contemporanea un Denominatore di Senso, dove le categorie e le nomenclature che denominano sono immancabilmente progettate al di fuori dell’alveo del Arte, e più interne a quello della Psichiatria, in particolare relativa all’ambito della Risposta al Trauma.
Beh, per ora basta, altrimenti ce ne sarebbe da dire per giorni: quando Bernard parla per esempio del concetto di movimento non intende lo spostamento di posizione ma l’insita energia che si manifesta così da infondere vita nei lineamenti che limitano un’opera. Tale lineamento o delineazione di resa energetica è definito Contorno. Insomma concetti che non tramontano al cambiare di uno stile o di una cultura, tanto meno di una moda, poiché inerenti l’idea stessa della vita, e che metterebbero alla frusta molte categorie usate orgogliosamente ai nostri giorni.
La cosa buona di tutta questa storia è il finale con cui lo storico si accomiatò dal mondo nelle ultime fasi della sua vita: «Profetizzo una nuova sintesi tra “vedere” e “sapere”, che porterà l’artista, e con lui l’umanità tutta, a nuove visioni, a nuove creazioni». Probabilmente, a Guerra Finita, e dopo tutti gli svarioni pavloviani che il sonno della ragione provoca, potremo riprendere il discorso indebitamente e capziosamente interrotto. Auguriamocelo, per lo meno.