Una vasta disamina storica su un momento decisivo per l’Italia, quello del secondo dopoguerra, quando si crearono gli indispensabili presupposti della situazione che ci troviamo ad affrontare ora: gli antefatti, gli attori, le quinte e il teatro sono tutti in vista. Un tema caro a questa redazione, quello dell’amplificatore culturale, è inquadrato e declinato in una vicenda che ci tocca da vicino. Buona lettura.
Articolo di Danilo Fabbroni
Se in una immaginaria, borgesiana, pesca capitasse di estrarre la classica palla di plastica trasparente contenente un cartiglio ed aprendolo, scartandolo, vi si leggesse il lemma “cultura” ci si parrebbe dinnanzi un enigma di proporzioni vastissime, gigantesche.
Tentare di afferrare, peggio, abbracciare il significato di questo lemma equivale a tentar di afferrare una salamandra: nel mentre di afferrarla ci sguscia via solerte.
Il termine “cultura” fa risuonare forte e chiaro quella massima che il marziano del jazz citò a proposito della musica: “La musica sta, galleggia, nell’aria; il momento in cui provi ad afferrarla svanisce, ti sfugge.”
A questo inquadramento pare dar man forte una certa antropologia che soleva ravvisare nella Kultur tutto e niente, inglobando in essa, in pratica, tanto le vette sublimi raggiunte dai Giganti del Pensiero – veri e proprio Ottomila, Annapurna, Himalaya o Nanga Parbat quanto le più infime, dozzinali, ordinarie futilità di tutti i giorni profferite dai quidam di turno.
In questo quella branca dell’antropologia era antivedente di quello che oggidì siamo costretti a toccar – purtroppo – con mano: il Woke, il politically correct, la cancel culture, l’inclusività costi quello che costi, et cetera.
A nulla valse l’avvertimento dato illo tempore dal critico della cultura Robert Hughes nel suo La cultura del piagnisteo, per i tipi di Adelphi: poveri versi gettati al vento. “Il tutto è falso” scriveva Adorno nel suo Minima Moralia, ovvero hegelianamente: tutto è falso, tutto è vero, ritratto perfetto della vacuità odierna.
Quindi, tornando a quella corrente antropologica Kultur è tanto Der Zauberberg di Thomas Mann quanto le triviali ombre cinesi agitate da Ferragni o da altri youtuber, tik-tokker, influencer, gangsta-rapper, trapper et alii.
Tutto ciò supera di gran lunga la dicotomia Kultur e Zivilisation che oggi come oggi lascia il tempo che trova: residuato bellico privo di alcuna valentia. Del resto la china discendente che l’Occidente tutto ha imboccato volontariamente è già ora ben oltre la soglia del tollerabile, miglia oltre la Zivilisation per approdare alla barbarie dal volto umano che è in scena oggi.
Ma torniamo a bomba con quella chimera che risponde al nome di Cultura. Essa si palesa e qui solo oltrepassa il suo stato chimerico allorquando è con-divisa, quando si con-natura ad un più, ad una moltitudine, quando diviene coram populo, quando tange una audience, scarsa o vasta che sia. In altre parole: uno potrebbe conservare nel cassetto proprio anche le foto più belle del mondo ma se nessuno le guarda, ancor prima di ammirarle, rimangono purtroppo lettera morta, sono atone, afone, anodine.
Si dirà: esse sono pure un linguaggio già costituito, materializzato e questo è vero ma l’essere linguaggio non è ancora sufficiente affinché esso si “transustanzia” in Kultur. Linguaggio compiuto lo si trovava già illo tempore nelle pitture rupestri – Lascaux, Altamira, esempi eclatanti – ma essendo prive di mecenati e di critici esse rimasero un linguaggio espresso e compreso tra pochi intimi.
Il possedere un linguaggio non è sillogismo di cultura: anche gli schizofrenici ne posseggono uno ma integralmente autoctono, endogeno, che non ammette accessibilità ad altri, non essendo comprensibile. I reperti rupestri – significativo – divennero Kultur quando etnologi, archeologi rimbalzarono le loro immagini in tutto il mondo: la condivisione assicurò che da reperti destinati ad un clan familiare essi si trasformarono in patrimonio dell’umanità.
Di nuovo: specie animali sono in possesso di un linguaggio compiuto – stante ad etologi – ma nondimeno questo non si “transustanzia” mai e poi mai in Cultura. Ancora attendiamo un Mercante di Venezia firmato “scimmia” oppure La scuola di Atene firmato “delfino” con buona pace di Peter Singer e di tutti i fan-animalisti. Deve esser chiaro che né gli Dèi né gli animali lavorano né “secernono” cultura.
Pure chi ha Fede non ha difficoltà a credere che i Testi Sacri siano stati materializzati da menti umane seppur sotto l’egida divina. La Cultura indubitabilmente è patrimonio esclusivo dell’Umanità. Ciò vale anche come sillogismo: un uomo che non sogna è uno che si appresta a morire.
L’Uomo è un animale mitopoietico per eccellenza; se non immagina, se non “idea” – voce del verbo ideare – è un Ecce Homo, un alieno. Non per nulla il prospettarsi dell’Era totalitaria dell’A.I., l’Intelligenza Artificiale, destinata a togliere, a sradicare ogni “sogno” creativo umano è il New Deal auspicato dalle menti raffinatissime che vegliano su di noi.
Ognuno, se è sano, se è intonso, pratica la mitopoiesi da par suo: il minus habens in maniera ordinaria, terra-terra, il Genio sommo si esprime, esempio tra i molti, con la Divina Commedia. La potenza devastante – tutta entro e non oltre il bene ed il male – della Kultur la si percepisce considerando un semplice dato di fatto, l’essenza fisica del Libro o di uno spartito.
Essi in nuce altro non sono che mezzi anti-duliviani, rozzi, primitivi. In fin dei conti di che cosa si tratta se non di messe di carta bianca o bianco-sporco che portano impresse dei segni neri o scuri? Il clone digitale del libro o dello spartito non per niente ha le stesse identiche peculiarità. Eppure a dispetto di ciò l’oggetto libro ha in sé una potenza devastante.
Sin troppo di facile effetto rammemorare l’uso dei pamphlet costruiti ad hoc nell’agitare la nitroglicerina rivoluzionaria rivoltante nell’Età dei Lumi, vedi i documentatissimi saggi di Robert Darnton sull’argomento per i tipi dell’Adelphi.
In tempi assai più recenti un individuo che ebbe a capire tutto – l’occhio Supremo di casa Adelphi – Roberto Calasso, parlava di “letteratura assoluta” per confermare l’importanza, il peso specifico, magnetica che certi volumi rivestono in seno all’audience degli astanti.
Del resto fu questa una constatazione della scoperta dell’acqua calda: Giordano Bruno, prototipo dell’agente di influenza – un caso se viene magnificato in casa Adelphi? – molti secoli fa disquisiva di “incantanzione” che certa iconografia, semiologia, esercita sulle platee tramite l’attuazione pratica, fattiva, di veri e propri “vincoli e legami” li chiamava lui. Sbalorditiva “antivedenza” dei coevi social?
La “potenza”, per riprendere il fil rouge del discorso, della Cultura la si ravvisa in eterno: altrimenti chi mai costringerebbe lo studentello coreano, esempio tra gli infiniti esempi, a struggere negli arditi passaggi del metodo Bottesini su un ostico strumento come il contrabbasso a distanza immane da quando scomparve il Maestro dei Maestri Bottesini?
Altrimenti che spingerebbe un allievo di una università del Giappone a cimentarsi, a tentar di discernere le asperità occluse dei versi della selva oscura dantesca impermeabili come sono addirittura alla maggioranza italica contemporanea? Chi mai si incaponirebbe a discernere le involuzioni lessicali del Principe di Machiavelli tenuto in considerazione massima, come un livre de chevet, presso le università americane di rango, la Ivy League?
Frutto tutto ciò di un livello raggiunto da una certa Cultura che è assurta a ranghi di vertice assoluto. Cultura, repetita juvant, che si rammemorerà all’infinito, che sfonderà tutti i muri culturali: Beethoven scomparso da tempo nondimeno verrà ricordato in eterno, in tutte le latitudini mondiali; lo stesso dicasi per il Bardo britannico e tanti altri.
Ma c’è un ma ed è un MA da nodo gordiano. Non esiste cultura che può essere vista, apprezzata e tramandata senza il ruolo di un megafono attraverso cui la si “passa” e la si “amplifica”. In termini semplici: la foto nel cassetto non troverà ammiratori di sorta senza il megafono-amplificatore.
Giganti della fotografia, Mimmo Jodice, Gabriele Basilico, Irving Penn privi di, rispettivamente di Lucio Amelio, Giovanna Calvenzi ed Alexey Brodovitch avrebbero dato adito a percorsi ben diversi. Esempi a proposito ce ne sono a iosa. Il Gattopardo rimase anni nei polverosi scaffali e rischiava di rimanere inchiodato in quella situazione anche quando un orbo Vittorini, oberato da deformanti occhiali ideologici, non volle farlo pubblicare da Einaudi.
Lo stesso baffuto Polifemo della cultura, Nietzsche, dovette auto-pubblicarsi i suoi primi scritti in quanto l’Accademia del suo paese giustamente subodorò la portata nichilista dei suoi scritti e non gli dette nessuna mano. Dovette attendere il trampolino di lancio di altri che invece volevano proprio che si diffondesse quel peculiare messaggio nihilista.
Il fatto è che la cultura, come tutte le manifestazioni umane, costa, ha un costo anche nelle forme meno altisonanti.
Evidente nel caso della scultura dove l’imponente massa di marmo necessaria al genio stratosferico di Bernini esigeva un mecenate a coprire il tutto ma finanche ad un “semplice” libro, il mezzo più economico di tutte le Arti. Ergo, un mentore, un mecenate è conditio sine qua non dell’espressione Arte e subito voltato pagina da ciò, un critico funge il più delle volte da megafono-amplificatore, nel bene e nel male, va detto…
Nei primordi del Dopo Guerra, dopo il disastroso, atroce 8 settembre, se non fosse stato per l’intervento di alti ufficiali del PWB, lo Psychological Warfare Board, sezione speciale di guerra psicologica britannica, la casa editrice Einaudi non avrebbe mai pubblicato niente di niente: le risme di carta furono fatte approvvigionare da tale branca dei Servizi. Fu nient’altro che la genesi di una ferrea egemonia culturale marchiata Giulio Einaudi & Co. su tutta la cultura nazionale, protrattasi per decenni e decenni.
A tal proposito doveroso ricordare che l’Armageddon – muoia Sansone con tutti i filistei – prospettato come spada di Damocle sulla Firenze durante l’epifania della Seconda Guerra Mondiale, divisa tra truppe nazi-fasciste in ritirata e i rivali anglo-americani in certa avanzata, fu evitata grazie ad una trattativa condotta dall’esimio direttore d’orchestra Markevitch in tenzone col suo alter-ego, sorta di Oberführer nazista, Wolf. Firenze fu salva, almeno parzialmente.
Da notare che in quel periodo, ai Tatti, villa glamour sui colli fiorentini, Bernard Berenson, mercante e critico d’arte non era per nulla estraneo all’episodio che abbiamo poc’anzi ricordato, tanto per avere l’ennesima conferma di quanto sia di peso un “megafono” che perori le cause dell’Arte, quindi della Kultur.
Immersi nell’Italia post-bellica, tabula rasa di un tempo devastato, si prospettava un dolente mare magnum da ricostruire, da ricostituire almeno. Fattori fondamentali di quell’iter, non ci vuol molto ad immaginarli, erano alcune delle leve atte a sollevar il mondo: la pecunia e l’ideologia. La prima, puzzolente sterco del Diavolo ma pur sempre indispensabile per far qualsiasi cosa, la seconda, un sistema di idee, quindi da leggere come Cultura, come Arte in senso lato.
Con la Pancia piena e la Mente oberata di giuste (?) idee ogni Principe guiderà il suo Impero più facilmente. Al desco dei Potenti Nostrani apparve il tavolo verde dei croupier dove accaparrare, arraffare tutto quello che si poteva. I più grossier a quel tavolo – gli esponenti della Balena Bianca – fecero presto, lesti di mano, il conto della serva dicendosi che se avessero messo le mani sul grisbì, sul malloppo – sulla sfera dell’Economia – avrebbero messo le mani sulle leve ultime del Potere. Menti grossolane invero, si sbagliarono clamorosamente.
All’altro capo del tavolo di converso menti raffinatissime capeggiate non per nulla da un eruditissimo banchiere bibliofilo – Raffaele Mattioli[1] – boss della potentissima Banca Commerciale Italiana, la Comit, coadiuvato da Franco Rodano, genius loci del catto-comunismo, sodale di Togliatti, convennero con la controparte di impossessarsi del fattore K, la Kultur, ignorando gli (stolti) sogghigni degli esponenti della Balena Bianca.
Da quel punto, da quella fuga prospettica si originò una dominazione culturale che imperversò per decenni su tutto l’orizzonte nazionale impostato sinistroversatamente in maniera ineludibile. Certo, ci furono eccezioni, ma eccezioni che non facevano altro che confermare la regola: Montale non era certo sinistroversato ma poco importava, c’era una schiera di sherpa della cultura che ingrossava le fila del politicamente corretto di allora.
Tant’è vero che se uno qualsiasi avesse avuto l’insana voglia, ancorché semplice curiosità, di dar un’occhiata ad autori maudit come Nietzsche, Céline, Schmitt, Jünger, Eliade, Dumezil non gli sarebbe rimasto che – vergognosamente come si trattasse di acquistare riviste pornografiche a tarda notte dall’edicolante di fiducia – rivolgersi a case editrici condannate alla damnatio memoriae: Rusconi, edizioni Mediterranee…
Ma andiamo avanti. Quando lo tsunami tangentopolesco spazzò via impietosamente – come sanno essere le menti raffinatissime delle volontà di potenze dell’anglo-sassocentrismo, perché Tangentopoli di questo si trattò – i bramini della Balena Bianca, i possessori delle Sapienze Culturali (ricordate la spartizione al tavolo verde?) risero di gusto. Avere mani nella marmellata del sacchetto dei denari non fu un salvacondotto per nessuno di loro.
Chi si era arrogato il Potere Politico Decisionale, gli apparatchick della Casta degli Ermellini togati, cresciuta a suon di French Theory – l’influenza del nefasto pensiero di “sorvegliare e punire” di Foucault è acclarato – aveva dato scacco matto ai tronfi ganzi della Balena Bianca.
Una volta annichilito, i possessori di un Moloch economico che si era dimostrato una catopleba – animale mitologico descritto da Mattioli che a causa della sua massiccia mole non poteva non addentare le sue stesse pesanti membra – non era più necessario, funzionalmente, la propalazione, la proliferazione dell’ideologia sinistroversa ancorché aggiornata con un côté catto-comunista.
Ma stiamo per concludere. La Gemeinwesen italica, la compagine sociale si era cangiata negli abiti catto-comunisti. Le potenze dell’Aria di cui parlava S. Paolo in una delle lettere ai tessalonicesi avevano compiuto la loro missione.
A quel punto, l’unione acutissima di potenze denarili, i caveau bancari a disposizione, a profusione, uniti a menti raffinatissime, dalle fini boiserie delle biblioteche, necessitava di un ulteriore salto di paradigma – mutamento di registro – come insegnava l’Istituto Tavistock, esperto delle operazioni psicologiche di massa la fine di dimidiare, di schiacciare, tale e quale lo schiacciasassi che asfalta il manto stradale, l’Identità dell’Individuo o, meglio, quel poco che era sopravvissuto. La risposta si trovava nel catto-adelphismo.
Non casualmente la fonte sorgiva dell’Adelphi provenne da una costola del bianco-vestito, ieratico, etereo, esangue Giulio Einaudi: Luciano Foà e Bobi Bazlen gravitavano più o meno prossimi a via Biancamano. Al parto di Adelphi si assembrò un parterre de roi mica da poco: pressappoco tutta l’alta borghesia meneghina girò col cappello in mano a sborsare fondi per quella partenogenesi.
Albeggiava prepotentemente l’era del catto-adelphismo. Magicamente autori maledetti, proibiti colla X come gli scritti porno, poterono comparire ben cromaticamente paludati tra i ranghi della Cultura che Conta: Céline, Schmitt, Jünger, Bataille, Nietzsche in testa. Essi divennero le cartine tornasole delle pop-avanguardie dei tempi nostri, pulp di massa.
Scomparso poche estati fa, l’eone adelphiano numero Uno, Calasso, vate supremo, la sua creatura, diverrà un pallido meme, un metaverso, un NFT, di se medesima. La Gemeinwesen italica è di nuovo cangiata tutta in un profondo catto-adelphismo. Quella Kultur è divenuta inutile: si è pietrificata in noi.
“Avere una grande cultura non significa essere intelligente”
ERACLITO
Altrettanto significativo che la figura spesseggiata da Gramsci dell’ “intellettuale organico” non era altro che il prototipo di una foltissima schiera di yesmen e pennivendoli, di Arlecchini pronti a cambiar lestamente giubba, assai bene ritratta da Mirella Serri nel suo volume I redenti, ove si narra delle mirabolanti gesta di voltagabbana che in men che non si dica prontamente celarono gli stivaloni neri del littorio fascista mentre indossavano il parmigiano fazzoletto rosso al collo del Partigiano Nazionale. Nulla di nuovo, in effetti.
Il micidiale studio di Frances Stonor Saunders Who Paid the Piper? sulle vicende profondamente eterodirette del Congress for Cultural Freedom – anche il nostro Ignazio Silone ne fu infangato – dimostra una volta di più come le Potenze Denarili e hominae intelligentia orientino la cultura che fa loro comodo.
Prova provata? Pollock coi suoi sgocciolamenti “pittureschi” sarebbe rimasto obliato se non fosse stato per quel milieu di cui sopra che voleva contrapporre al realismo socialista sovietico una soi disant libertà espressiva dell’Occidente.
Un infinitamente più maestoso, grande, Hopper proprio per il suo realismo fu obliato nella sua terra natale…
[1] Mai dimenticare che si deve a Mattioli la tutela e la conservazione nonché la successiva diffusione dei Quaderni dal carcere di Gramsci.
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