Un esperimento per descrivere l’esperienza
di Pier Luigi Impedovo
Mi è capitato recentemente di leggere un vecchio articolo https://www.azionetradizionale.com/…/il-maxxi-di-roma che riportava la notizia di un atto vandalico compiuto qualche anno fa al Maxxi di Roma contro un’opera di Gaetano Pesce, scultore, architetto e designer italiano, a cui il museo stava dedicando una personale.
L’opera era la versione gigante della poltrona a forma di donna, ovviamente rappresentazione metaforica, incatenata ad una palla gigantesca ed in cui un’apertura conduce ad una grata di metallo evocativa simbolicamente dello stato di prigionia a cui la donna è eternamente e inesorabilmente condannata da pregiudizi maschili.
Per l’autore dell’articolo, l’opera si commentava da sé per l’assoluta inconsistenza, tipica dell’arte contemporanea protesa a sfruttare una tematica abusata e strumentalizzata da un certo intellettualismo di sinistra.
Che critica spietata…
Ma qual è la giusta visione e interpretazione dell’arte contemporanea?
Potremmo simulare e tentare di rispondere ipotizzando un immaginario accesso in questo importante museo di Roma.
Naturalmente il gesto vandalico era stato immediatamente condannato con squillanti grida di dolore espresse da parte della cricca pseudo intellettualoide la quale si era subito mostrata pronta a trasporre il significato dell’atto a violenza simbolica sulle donne e conseguente testimonianza dell’oppressione maschile permanente. Tipico concetto boldriniano, per intenderci.
Cosa accade quando si entra al Maxxi?
Lo spettatore, intendo quello che non abbia alcun pregiudizio e non sia infarcito di schemi rappresentativi, che nel caso specifico molto avrebbero a che fare con forme patologiche di delirio narcisistico, quindi lo spettatore con un occhio che non sia traviato dagli schemi mentali odierni, entrando in questo museo resta immediatamente disorientato dagli oggetti esposti e messi in mostra; come pietrificato.
Entra in questa oscura dimensione inevitabilmente con un complesso di inferiorità, condizione assolutamente voluta dagli espositori.
Egli si trova catapultato in un mondo parallelo, oscuro e sconosciuto, inghiottito nella dimensione onirica che diviene spaventevole e tangibile al tempo stesso; ma è spaesato, si sente inadeguato in quel posto oscuro e misterioso.
Sente adesso, dopo i primi passi, l’immediata necessità di salvarsi, e per farlo di rivestire egli stesso il ruolo di interprete improvvisato di simbologie astratte dalle quali è completamente circondato. Ma nel contempo si trova quasi nella condizione di giustificare a se stesso l’incapacità di comprendere fino in fondo il mondo metafisico ed irreale che gli sta intorno.
Allora improvvisa, si getta nella fantasiosa fuga dalla realtà e gioca con iperbolici guizzi interpretativi, provvidenzialmente regalati dalla psiche, che gli indicano la strada e che gli attenuano quella sofferenza e quell’imbarazzo che solo un viaggio solitario verso l’ignoto produce.
Si trova comunque inesorabilmente solo, suo malgrado. Egli è solo con se stesso, nonostante i tentativi di fuga, soprattutto nei momenti in cui la coscienza riaffiora e riappare nella sua spietatezza il vigore logico dell’intelletto. Inizia così a vergognarsi quasi di se stesso, e di questo suo oppressivo senso di inadeguatezza che comunque non riesce a scacciare.
Per poter comprendere sente che deve definitivamente uscire da se stesso, fingere permanentemente una fuga per l’intera durata di quel viaggio. E diventata una vera e propria questione di sopravvivenza.
A questo punto cerca aiuto, solidarietà.
Dopo essersi guardato timidamente intorno e dopo aver cercato invano comprensione negli occhi degli altri esploratori, come lui inghiottiti in questo vortice di rappresentazioni surreali e incomprensibili per le possibilità umane, continua a sentirsi solo.
A causa di questa necessità di sopravvivenza e bisogno di accettazione, come ultima possibilità, decide quindi di mimetizzarsi, di fingere, di uccidere definitamente il pensiero logico (seppur soccorso dall’intelligenza emotiva) che lo tormenta e gli rende impossibile continuare.
Si nasconde (anche a se stesso) recitando il ruolo massificato e massificante dell’uno insieme ad altre unità che fanno parte del tutto, componenti misere e non necessarie dell’ordine universale trasportate come insignificanti granelli di sabbia in quel vortice che porta all’infinito.
Egli è ora divenuto elemento infimo che si annulla nel “supremo”, particella che armonizzata e amalgamata con altre particelle diventa parte dell’Essere, seppur nell’indefinito senso dell’esistere come tale e nell’incomprensibile rappresentazione metafisica del tutto.
Poi finalmente esce dall’incubo e il traghettato, ormai esausto e con la percezione di sé quasi annullata, si trova di nuovo fuori dal Maxxi. Torna ad esistere, ma dopo aver perduto ed essersi perduto nell’Essere.
Infatti il Maxxi è il Maxxi, anche nel nome.
È grande, immenso e dall’alto domina labirinticamente chi vi entra, ha delle pretese assolute su chi vi accede. Con un occhio surreale vigila e conduce come un Caronte le anime in un percorso totalmente onirico, percorso che tende a disorientare e stordire l’incauto esploratore che ha osato addentrarsi all’interno, a punire il viandante sprovveduto che ha avuto l’ardire e la pretesa di comprendere l’assoluto.
E gli espositori, loro sì compiaciuti, dall’alto della loro posizione dominante, e con la pretesa consapevole di rappresentare ed essere parte del disegno dell’onnipotenza divina, inconcepibile per l’essere mortale, si sentono espressione pura dell’uno, dell’assoluto.
Sono loro i traghettatori e gli strumenti al servizio di un dio che è motore del tutto e che utilizza il linguaggio intangibile e simbolico di questi sacerdoti visionari per definire i contorni dell’universo e per rendere ancora più piccolo l’essere umano che osa contemplarne il disegno.
Non è tanto chiaro eh? Facciamo un esempio pratico di questo percorso mentale, di questo condizionamento. Anzi, meglio:
Facciamo un esperimento
Si prenda in considerazione un’ipotetica opera composta, o componibile da chiunque, mediante accostamento del tutto casuale di colori ed oggetti di qualsiasi natura, un collage caotico del tutto fortuito che configuri un assemblaggio di colori ed oggetti al di là di ogni intento compositivo che tenda a giustificare una correlazione tra questi, una composizione avulsa da qualsiasi intento di attribuirne un significato.
Supponiamo che questo compositore voglia dare anche un titolo a tale opera e che opti, questa volta scientemente, di attribuire a tale assemblaggio un titolo altisonante: SENTIERI INTERROTTI.
E supponiamo anche che un famoso e riconosciuto critico d’arte, che volesse prestarsi a tale esperimento, scriva una critica per la presentazione al pubblico di tale opera esprimendosi con le sottostanti parole:
“SENTIERI INTERROTTI”
“L’opera si compone di alcuni spezzoni lignei e metallici di diverso colore che si alternano e dividono la composizione come per rimarcare una ineluttabile e necessaria discontinuità. Sono i sentieri della mente e dell’esistenza dell’individuo, ognuno di questi avente univocità assoluta, ma facenti parte del medesimo percorso esistenziale il cui unico filo e denominatore rappresentativo, alla ricerca di una impossibile continuità, è l’insieme delle parti stesse che si compongono nell’alternanza di dimensioni, forme e colori. Sembra di "trovarsi in un sentiero che, interrompendosi, svia" se si vuole usare una metafora heideggeriana, ma nel contempo resta un insieme unico. Svia, ma acquisisce anche completezza. La traccia del pensiero umano che nella memoria viene rappresentato in modo frammentato con le varie alternanze, non vuole proporsi e rappresentare una meta definitiva o un’evoluzione verso qualcosa. Tale traccia che si traduce in visione mnemonica e onirica dell’esistenza umana, non può che procedere, al contrario, se non come continua divergenza, come irriducibile erranza e discontinuità rappresentativa del sé; traccia non di un percorso verso qualcosa, ma di un insieme complesso che ha un senso solo nell’affiancamento delle continue frammentazioni dell’Essere, o “Io”, che coglie se stesso in un determinato momento nella totalità delle sue differenze.“
A questo punto non ci sentiamo tutti come l’incauto viaggiatore all’interno del Maxxi? Non siamo pervasi da un senso di inadeguatezza?
Non siamo forse costretti a soffocare la nostra razionalità e abbracciare dogmaticamente qualcosa il cui significato ci viene descritto dal sacerdote dell’arte, ma che non riusciamo comunque a comprendere? O forse l’arte riesce comunque a farci andare oltre la nostra abituale dimensione esistenziale?
Pier Luigi Impedovo