di Luca Nava
L’organizzazione del sistema di genesi dell’opera d’arte e del sapere che sottende ad essa, costituito dalla presenza di una realtà intellegibile formata da singole unità interconnesse fra loro, pone alcuni punti di interrogazione o quantomeno di messa in dubbio dell’efficacia e capacità comunicativa univoca di un’opera e del relativo contenuto da veicolare.
Per quanto articolato e profondo un “sentire” o un contenuto che vivifica un’opera, ha sempre un indirizzo teleologico, proprio perché nasce dall’esigenza di senso negli atti seguenti un pensiero.
Quell’uomo, proprio lui, è l’elemento problematico, la sua natura lo è: Definito a vario titolo argomentativo e specialmente in chiave evoluzionistica “Animale Razionale”, l’uomo di animalesco, a ben guardare, non ha nulla e ciò è un elemento a suo sfavore nel 50% dei casi o forse più: l’animale usa l’istinto, l’uomo no.
L’istinto porta gli animali dotati di un’anima istintiva appunto a fuggire in prossimità di un pericolo come di una eruzione vulcanica, o di un incendio anche in lontananza, spinge gli animali ad accoppiarsi solo in determinati momenti e condizioni, essi sono “obbligati” da un vincolo che li lega ad un agire indotto. Essi più propriamente sono agiti e non agiscono.
Una legge già scritta dentro di loro e nel grande libro della natura li governa… li accomuna l’assoggettamento alla battaglia fra Eros e Thanatos all’uomo: colui che è mosso dalla forza erotica, talora bestiale come è nei satiri, la quale forza porta alla distruzione di colui che letteralmente “è destinato alla morte” .
Si sarebbe potuto usare il termine Antropos per indicare la condizione umana e invece no… Thanaos… “colui che è destinato a morire” e su questo nulla di strano; ciò che rompe la comunanza con l’animale è invece la consapevolezza dell’io: aver cognizione del tempo e della propria finitezza contrastante con l’aspirazione invece a una vita senza la parola fine.
Questo è un dramma carsico quotidiano in ogni uomo che sia consapevole… e dramma talvolta che emerge prorompente.
L’uomo no, questo istinto e sensibilità degli animali cui alcuni attribuiscono una qualità piu specifica simile, ma non uguale all’empatia, non lo possiede, ed è per questo che ha dovuto dapprima inventarsi i miti come metafora e surrogato delle leggi naturali, quelle che non sente proprie come invece le sentono gli animali.
I miti degli dei greci che puniscono coloro che peccano di tracotanza, ossia per aver oltrepassato il limite loro consentito.
Il Dio dei cristiani che castiga le colpe morali e carnali nelle generazioni fino a sette volte, i codici vari delle leggi delle tribù barbariche e ancora tutto il complesso impianto di dei studiato da Warburg nelle popolazioni indigene dell’Africa e tanto si potrebbe citarne di questi esempi.
Appigli che l’uomo si è dato e che nel tempo hanno raggiunto il grado di massime morali, per poi in seguito assurgere al grado di leggi per regolare il proprio vivere.
In tutto ciò si rileva che in natura manca all’uomo la connessione con le dinamiche naturali e più propriamente “animali” cosi come nei tempi per lo svolgimento dei ritmi dell’esistenza, intesi come dinamiche complesse dei gruppi naturali sociali di appartenenza.
Stormi di uccelli, mandrie di zebre, branchi di lupi o leoni possiedono codici innati di relazione fra simili: si spostano per un istinto comune, si cibano, ritualizzano la vita e modulano il concetto astratto di tempo in via istintiva in modo specie-specifico.
L’uomo no, tutto ciò per lui è scardinato e sacrificato sull’altare dell’autodeterminazione, così per supplire a questa bussola interiore il genere uomo e la specie animale cui da sé erroneamente(?) è riferito ha dovuto di epoca in epoca darsi dei sostituti a questa legge mancante o non aderente alla propria essenza.
L’uomo NON può essere considerato un animale, a suo discapito, perché se lo fosse vivrebbe forse diversamente.
Non è animale perché dell’animale manca del carattere primo, ossia L’ISTINTO, cioè la capacità “naturale” di “sentire.”
Dunque quello che caratterizza maggiormente l’uomo è il suo aspetto razionale, il carattere di Anima Razionale, meglio dire, scoperto da Aristotele, passando in confermato per Tommaso e Agostino fino a Kierkegaard, ma indirettamente riconosciuto anche da Hegel e Schopenhauer quando l’uno contro le posizioni dell’altro mettevano in evidenza i caratteri testé citati.
Il pensiero è l’agente, certo come attività dell’anima particolare, il quale considera, ordina, imita, stima, intellige, talvolta migliora il mondo intorno a sé, che percepisce primariamente con i sensi, tal altra lo riduce a un inferno di passioni irrazionali, manifestazione palese e conferma in atti del dualismo insolvibile che regna nell’essere umano.
Tutto questo vissuto fisico, esperienziale ed emotivo, passa attraverso lo sviluppo sempre più complesso di un linguaggio che permetta la riproposizione in chiave intellegibile di realtà interne sempre più complesse, specie se queste realtà si presentano come fantasmatiche (il cui termine ha spiegazione nell’articolo precedente).
Carattere peculiare del linguaggio artistico è quello di armonizzare forme in uno spazio e talvolta nel tempo per dare corpo a un pensiero che nasce in termini figurati, codificato in una grammatica fatta di segni e colori che poi assume un ordine ontologico per mezzo di termini convenzionali uguali per tutti, ossia la parola.
Termini o parole, seppur diversi nelle diverse lingue, assumono però il medesimo significato e trapassano nell’ immagine della fantasia del singolo.
Se il “singolo” è l’artista accade che poi tale immagine si possa concretizzare nel supporto o sul supporto dell’opera prendono significato diverso per ciascuno che in seguito vi si accosti a causa del metodo percettivo/intellettivo che taluni sono in grado di coltivare rispetto ad altri.
Come è possibile che da una grammatica comune, che genera una lingua comune, che parla della stessa cosa, poi si generi una sintassi differente? Ne derivi cioè una percezione e consapevolezza differente?
La risposta qui è tanto semplice quanto scomoda da sentirsi dire, perché probabilmente smonta convinzioni e toglie un poco di poesia all’aura che gravita intorno all’arte….
Probabilmente toglie anche quell’aurea di mistero alchemico della quale molti artisti o presunti tali si sono voluti ammantare nel tempo: ciò che generalmente si invoca come Sensibilità maggiore di alcuni artisti (non si capisce su quali basi), rispetto ad altri artisti oppure a chi le opere le osserva solamente, in genere non è maggior empatia rispetto al resto del mondo.
Semmai si tratta della volontà di dar forma concreta a un “percepire” che è proprio e meritevole di tutta la considerazione ma che non si può dire superiore ad altri soggetti che questo stato dell’anima semplicemente non lo manifestano o lo manifestano in modo non esplicito o in forme non riconosciute come “artistiche” e conseguentemente non comprese.
Si ripropone il problema del linguaggio e della sua efficacia comunicativa: il problema della “forma” dell’espressione si lega alla densità del suo significato, alla “Sostanza”.
È quest’ultima ad essere percepita dal destinatario dell’opera che, tramite la suggestione evocativa dei contenuti della stessa, rivive percezioni già conosciute perché già dentro di lui.
Ma il linguaggio per comunicarla questa sostanza o si presenta come chiaro e conosciuto, o serve un interprete che utilizzi gli strumenti della logica, intesa non come esclusivo processo razionale ma come procedere sillogistico, dunque solo in parte empirico e per una parte si accetti di buon grado un’area di indeterminatezza e ingovernabilità che sono le Emozioni, e che non è saccenza, ma che fa prestito dai saggi della storia e dell’esperienza millenaria delle dinamiche antropologiche.
I mezzi per dare corpo, tramite una forma apofantica di linguaggio a quelle determinazioni umane e sostanziali presenti nell’opera, sono una prerogativa del “Traduttore”.
La genesi di un’opera nasce dunque dalle interazioni certamente di esperienze e concetti appresi ma tutti veicolati con linguaggi generanti immagini interne che diverranno poi esterne tramite quel linguaggio nuovo che é la cifra dell’artista.
In questo passaggio, dai meccanismi in parte oscuri di questo trapasso dall’interno all’esterno sta il ruolo di chi da voce a ciò che invece si esprime tramite colori e segni e altri mezzi.
“Dal molteplice all’uno direbbe Plotino”… absit iniuria verbis, aggiunge chi scrive, senza voler sembrare irriverente nei confronti del primo riconosciuto dei neoplatonici.
Talvolta accade di incontrare il disagio di artisti o pittori, meglio, contemporanei che lamentano una mancanza di riconoscimento a più livelli del loro operato.
Il Grido dell’artista nella contemporaneità è in prevalenza anche se non esclusivamente un grido di denuncia e di esibizione del dolore… soprattutto nelle opere loro… dolore individuale il più delle volte, che si pretende diventi collettivo.
A costoro sarebbe opportuno ricordare che:
“Il grande dolore è muto, è la piccola ferita che fa strillare”.
Socrate
Forse la consapevolezza che è propria di ciascuno che si cimenti nelle cose dell’anima è quella che vi è la necessita di riservatezza e la discrezione che deriva dalla gentilezza d’animo e dal rispetto del dramma individuale che ciascuno vive ogni giorno.
Senza sbandierare o imporre ad altri il proprio dramma si farebbe atto di grande sensibilità se non di empatia, poiché tutti sono chiamati a confrontarsi con le contraddizioni dell’esistenza.
Questo probabilmente e inconsciamente per un certo grado, genera il mancato riconoscimento se non il rifiuto dell’idea di un dramma “tuo” che si impone sul “mio”.
Invece forma discreta senza tacere e delicatezza anche nel esporre un dolore, senza per questo togliere nulla alla qualità del contenuto… genererebbe quel senso di identificazione, agevolato da un linguaggio figurato accessibile, per avere l’agognato riconoscimento “per via naturale”… ma serve la classe innata per essere Artisti come è scritto, ossia con la A maiuscola e non è per tutti.
Se comunicazione deve esserci certo non passerà attraverso la provocazione o il lamento, ma attraverso la forma più sublime di comunicazione fatta da corpi che sentono e anima che intende.
Gli artisti, i pittori o anche i lettori generalmente compresi, vorranno scusare la fallacia di chi scrive consapevole dei limiti che la conoscenza dischiude ma che anche impone e magari anche di tale metodo esplicativo e di indagine del fatto culturale artistico in via di perfezionamento da circa 2.500 anni, preso a prestito da chi vi si cimenta dalle origini greche fino ad oggi per affinarlo.
Semmai, invece di profondersi in lamenti di incomprensione della propria presunta genialità talvolta, forse, e ripeto forse, alcuni di nuovi artisti contemporanei o coloro che tali si sentono e incompresi sarebbe il caso usassero la parte più propria dell’essere uomo o donna per indagare il delicato terreno dell’interiorità in punta di piedi invece che urlarlo e senza far troppo rumore, chiedendo permesso prima di imporsi sulla parte più vulnerabile di ciascuno con esposizioni di carattere “violento”.
Così agendo potrebbe emergere la possibilità più opportuna di riservare i propositi di indagine e insondabilità dell’animo umano ad una sfera intima e /o religiosa nelle quale nascono o che scelgono di approfondire.
Quella sfera personale da condividere solo con chi si Ama veramente (?) fatto salvo l’amore per se e la propria arte e che forse anche qui, con quel sentimento o condizione aulica si potrebbe riuscire a scrutare in quell’insondabilità dell’anima.
Uno scrutare non di tutti ma di quell’uno/a prescelto/a …e sarebbe già impresa riuscire a fare quello.
Il lavoro di divulgazione che è altro dal fare arte, ma comparabile al riconoscimento dei valori “artistici” comuni se questi sussistono, contempla un procedere diverso che giunge a chiarificazioni di intricati percorsi filologici per poi dispiegare il tutto in una fruibile semplificazione ma non banalizzazione delle opere stesse.
Si tratta di percorsi che talvolta richiedono decenni di ricerche e comparazioni, da parte dei “traduttori”(storici, storici dell’arte, esegeti, filologi, filosofi) che dovrebbero quantomeno godere di una forma di credito che se non a sé, almeno all’autorevolezza delle fonti andrebbe rivolto.
All’artista l’insostituibile ruolo di alchimista senza tempo, che nessuno vuole a lui negare.
Termine/i complessi anzi compositi quelli di sensibilità, empatia e intendimento, anche questi tutti da precisare e considerare al netto delle credenze e sovrastrutture che li mascherano, esattamente come accade per il termine “Opera d’Arte”… absit iniuria verbis…
Luca Nava Storico dell’Arte.