di Cataldo Motolese
Chiacchierata accademica con il mio amico Enrico Meo, dotto Artista.
La dissomiglianza tra l’arte greca classica e l’iconografia bizantina rimane nel fatto che mentre la prima centra per la compiutezza e l’estetica delle forme e l’intellettualismo intangibile, la seconda invece colpisce per l’energia del contenuto, l’interiorità spiritualizzata guidata dalla religione.
Nel raffronto sul piano semplicemente apparente, chi ci rimette di sicuro è quella bizantina, perché non si preoccupa di stupire l’intelligenza o di provocare ammirazione, ma di implicare la sfera affettiva ed emozionale.
L’arte bizantina non è rivolta alle pulsioni esterne, non insegue la peculiarità dello stile, l’armonia geometrica delle parti, la riproduzione del mondo reale, la glorificazione dei lineamenti del corpo umano, la soddisfazione intellettuale, l’intelligenza creativa o la dimostrazione attenta di uno specifico vissuto.
Essa invece vuole percepire le sensazioni interiori, la capacità di emozionare, di far riflettere su di sé e quello che si è, e principalmente su quello che si deve divenire per poter ricevere in eredità qualcosa che viene accolto come “dono”.
È stato detto, banalmente, che l’arte Bizantina era assai conservatrice ma il riferimento così usato si mostra con un significato negativo specialmente in un mondo, quale l’odierno, dove il progresso e il persistente trasformismo ne fa le sue ragioni di vita. “Conservare” una memoria, dei meriti, di per sé non dice nulla se non si pongono in rapporto quella tradizione o quei meriti ai bisogni della gente comune.
La riscoperta dell’iconografia russa è accaduta in modo laico, senza percepire la necessità di un rientro alla vita ecclesiale d’un tempo. Viktor Lazarev con la sua opera magnum “La storia della pittura bizantina”, rappresenta un evento artistico meritevole della massima considerazione, fondamentale per comprendere l’arte religiosa russa e bizantina. Lazarev ha voluto spiegare come l’icona non sia affatto un ritratto, ma un modello della futura umanità idealizzata.
I modelli che dipingeva l’artista non erano degli individui reali ma l’icona poteva raffigurare semplicemente un’immagine simbolica. I corpi aguzzi dei santi e dello stesso Cristo, tormentati senza cibo e dalle fatiche, i volti e le mani, con quella loro incantata astrattezza, desideravano ardentemente opporsi al “regno della carne”, alla veemenza, e le loro “pulsioni” rappresentavano una nuova regola nelle relazioni vitali. Nelle icone non ci si imbatte mai in un Cristo pitturato col volto rotondo, le labbra rosse, i capelli ricciuti, i muscoli in evidenza, le gambe accavallate.
Scriveva Cyril Mango nel 1980: arte bizantina significa “predominio dell’ornamento, graduale perdita della tridimensionalità, frontalità delle figure umane, negligenza per i rapporti di scala”
Quindi perché farsi subordinare dallo stile e dalla forma per attribuire un valore a un’opera d’arte? Siamo sicuri che per manifestare sentimenti umani serve ovviamente una forma compiuta?
Non si può osservare l’arte bizantina con sguardi moderni, cioè ragionando con quello che è accaduto dopo, a partire con il rovesciamento della pittura a carico di Giotto. Il grande artista fiorentino restituisce la grossezza, la tridimensionalità alle cose e alle figure introducendole in uno spazio calcolabile, come non si faceva più da secoli.
L’arte bizantina non va vista in maniera negativa perché “non firmata e indeterminata”, anche se oggi, ogni forma di arte, è controllata da un mercato che glorifica l’affermazione e l’autonomia del singolo. L’anonimato dell’artista bizantino derivava da quello che rappresentava, non era frutto del suo talento personale ma da una esperienza collettiva, difendendo il mantenimento di una tradizione consolidata, garantendo, cosi, una lunga stabilità.
Tuttavia tali artisti non agivano come dei burattini senza nessuna libertà creativa. Erano capaci di variare l’assemblaggio dello schema che avevano ricevuto, i suoi contorni, le sue linee, la distribuzione dei colori, le sfumature, conseguendo a dare un tocco originale ad ogni opera.
Al contrario, oggi gli artisti del mondo occidentale si muovono in maniera del tutto libertaria, senza riferimenti ad alcuna tradizione e al massimo si comparano tra loro. Non creano per essere compresi e, quando non vengono capiti, dal momento che scelgono di seguire le loro attitudini, i loro interessi, la loro intima, soggettiva e narcisistica emotività, così come si può appurare nelle manifestazioni artistiche indefinite della seconda metà del Novecento, dove, quando al fare arte non si è in cospetto di una mera “provocazione” spiantata al controsenso della vita e delle cose in generale, manifestata spesso in configurazioni assurdi o sgradevoli, si conclude col sottomettere le necessità artistiche a quelle commerciali del capitalismo avanzato, che oggi nondimeno paiono aver trovato vaste attuazioni in quella che viene definita “arte digitale”.
Cataldo Motolese