Quando la bruttura porta una grande firma.
Quello che sto per descrivere è un meccanismo molto comune. Ammetto di averlo subito anche io e di essermici appiattito sopra per molto tempo.
Consiste nell’accettazione incondizionata del fatto che, quando un artista è universalmente riconosciuto, tutto ciò che fa viene considerato un’eccellenza.
Forse l’unica condizione richiesta è che le opere siano aderenti allo stile proprio dell’autore divenuto ormai riconoscibile.
Lo spettatore, che dovrebbe essere il protagonista principale nell’atto delle visione, tende invece a vivere una sorta di complesso che lo porta ad assumere un ruolo secondario.
“Quando l’opera è di quel grande artista lì e non mi piace è perché non sono all’altezza di valutarla, poiché l’ipotesi che quell’autore possa aver prodotto qualcosa di non apprezzabile, non è da prendere nemmeno in considerazione”.
Sono perfettamente cosciente che nel far emergere questo tema, che investe l’arte nella sua essenza più profonda, si va a toccare un equilibrio delicatissimo.
Se da una parte, sdoganare l’idea che il gusto di chiunque possa essere posto ad unità di misura della qualità di un’opera porterebbe al trionfo del kitsch, visto che moltissime persone hanno nei confronti della bellezza un approccio primitivo ed istintuale che non fa riferimento a stabili parametri di qualità, dall’altra affidarsi in maniera totalmente acritica ad ogni cosa che viene proposta come di alto valore espressivo poiché la firma è garanzia di questo, può portare a convincerci di dover stimare oggetti che meriterebbero poco o nessun apprezzamento. Cosa alquanto umiliante qualora se ne dovesse diventare consapevoli.
Come la questione possa avere una soluzione è difficile dirlo. Per ora ci accontenteremo di prendere coscienza di alcune verità a riguardo.
La prima. La responsabilità di questa confusione, dove non si riesce più a comprendere cosa sia bello, cosa abbia valore, cosa addirittura sia arte, è tutta a carico dell’enorme flusso di informazioni distorte riversate dalla critica sulla percezione comune in tema di arte (ragion per cui questa rivista si fregia del fatto di essere interdetta ai critici).
È probabile che, se quella percezione comune non fosse stata condizionata e fosse invece lasciata ad uno sfogo naturale, probabilmente avremmo prodotti artistici ben più omogeneamente allineati su alti livelli di qualità.
Infondo questo è ciò che accadeva in passato.
La seconda. Anche i più grandi artisti, quelli che hanno segnato le svolte fondamentali della storia dell’arte, hanno prodotto brutture. Conseguenza diretta della loro natura umana. Gli artisti sono umani che manipolano qualcosa di estremamente complesso: il linguaggio dell’arte, dove fallire l’obbiettivo è sempre stato di lunga più probabile che centrarlo. E quindi, conviene aprirsi a quest’idea anche quando si deve mettere in discussione qualcuno che, in altre occasioni, ha saputo essere estremamente convincente.
Una terza e più triste verità è che gli artisti che hanno raggiunto alti livelli di riconoscimento, anche quei pochi che quel riconoscimento lo meritavano davvero, hanno incominciato a sfruttare questo meccanismo. Hanno percepito che di fronte alla propria opera lo spettatore si prostra ed accoglie senza giudicare. E quindi, dall’alto del piedistallo raggiunto, hanno calato giù di tutto, senza curarsi troppo nel cercare di essere almeno all’altezza di se stessi, quando valeva la pena di esserlo.
Tutto questo lo constatiamo ignorando il fatto che molti nomi sono arrivati ai vertici dell’attenzione mediatica e del pubblico senza aver davvero mai fatto nulla che valesse la pena di essere guardato. Ma di questo ho trattato già in maniera più che esauriente in altre sedi.