Lo stordimento che ho ricevuto dalla mia esperienza nel mondo del fumetto è stato tale che a distanza di anni faccio ancora fatica a rimettere insieme le idee.
Erano gli anni ’90, ero giovane e vivevo in provincia. Due elementi che messi insieme facevano sì che fossi una persona che si stupiva spesso di quello che vedeva intorno. Nello studio di pittura del mio maestro avevo rinvenuto un vecchio numero di Linus. Il maestro mi spiegò che quella era la rivista più importante che trattava di fumetto d’autore e che il fumetto d’autore era ormai considerato da tempo un vero e proprio genere letterario.
Tutto partì da lì. Poco tempo dopo, dopo aver osservato un po’ con stupore quel mondo, feci nascere un mio personaggio. Un piccolo indiano che decisi di chiamare “Penna di Tacchino”.
In pochi anni, attraverso una serie di vicissitudini che varrebbe veramente la pena di raccontare ma che qui non potrò trattare per brevità, vengo accolto da uno dei più grandi editori italiani che decise di pubblicare il mio fumetto in uno dei più venduti prodotti editoriali del momento. L’agenda Comix. Vidi replicato il mio lavoro in centinaia di migliaia di copie ogni anno in tutta Italia.
Quel successo, che mi portava pure a firmare autografi, a volte mi creava imbarazzo. Il motivo era nel fatto che, essendo arrivato all’improvviso a quei livelli di notorietà, in qualche modo venivo considerato un maestro del settore. Questo presupponeva che io fossi in qualche modo un esperto conoscitore di quel mondo, della sua storia, della sua attualità e frequentassi il rispettivo ambiente di autori, disegnatori, editori.
E invece non c’era niente di tutto questo. Ma questa cosa mi faceva sentire l’obbligo di dover costruire quell’ immagine che il mondo si aspettava da me.
Per prima cosa incominciai a cercare riviste del settore che mi tenessero aggiornato. Ne comprai una ma non ricordo quale. Mi ricordo solo che, in quegl’anni di grande sviluppo del web e delle nuove tecnologie computerizzate nel cinema di animazione, uno degli articoli parlava di un crollo delle vendite del fumetto di circa il 70% in un anno (!)
La cosa mi repelleva. Ero appena diventato uno dei nomi più importanti di un mondo che però era in totale decadenza. In più, quasi nulla mi piaceva di quel mondo dove si mescolavano in maniera spesso stridente tante cose tutte molto diverse fra loro. L’orror e la telenovela, il romanzo e la pornografia, la comicità e l’avventura, la letteratura ed il trash.
Io ero solo interessato a dare vita al mio personaggio. Questo piccolo indiano attraverso il quale, col linguaggio leggero della satira, riuscivo ad esprimere tutte le contraddizioni del tempo in cui vivevo.
Poi c’erano i difficili rapporti con l’editore, che scartava le strisce più significative da questo punto di vista, per prendere le poche che facevo sporadicamente senza significati profondi, per dare leggerezza ai temi trattati. Quella selezione era per me ogni volta avvilente.
Ci ho messo dodici anni per liberarmi da quel mondo che alternava in me soddisfazioni e frustrazioni. Mi dispiaceva di non dover più firmare autografi, ma almeno mi scrollavo di dosso un’immagine che non ho mai sentito che mi appartenesse.
Tuttavia qualcosa di quel mondo ho imparato. E allora di quello posso parlare a ragione veduta.
Il linguaggio del fumetto.
Il linguaggio del fumetto è apparentemente la somma di due linguaggi. Quello grafico del disegno e quello scritto del lettering.
I due linguaggi interagiscono compendiandosi. Ognuno comunica ciò che meglio riesce a comunicare. Dove non arriva interviene l’altro linguaggio.
Per capire meglio questo concetto sarà di aiuto il quadro che segue, come esempio di cosa da non fare:
Come si vede, il lettering non fa altro che ripetere quello che già dice il disegno. Questo appesantisce la scena.
Nel fumetto invece la leggerezza deve fare da padrona. Al disegno viene affidato il compito di presentare la scena con un numero quanto più ridotto possibile di informazioni. Il disegno deve riportare non uno di più degli elementi necessari a descrivere la situazione.
L’occhio del lettore lo scruta in senso circolare con un gesto rapidissimo e quindi è assolutamente doveroso che ci siano solo gli elementi necessari al racconto.
Di grande aiuto in questa sintesi ci sono delle tecniche specifiche come lo scontornato e la siluette.
Il primo consiste nel togliere all’occhio i contorni del quadro. Con i contorni se ne vanno anche tutti gli elementi che ad essi si agganciano, come ad esempio il paesaggio di sfondo. Questo, se non necessario al contesto del racconto, viene tranquillamente sacrificato.
La silhouette invece fa scomparire gli elementi interni al corpo degli oggetti. Questo spinge l’attenzione del lettore verso la sola presenza dell’oggetto, sorvolando sui suoi attributi, sempre se, nel contesto del racconto non sono necessari.
Un’altra tecnica che produce sintesi è la voce fuori campo. Quella cosa che nel fumetto si esprime quando la freccia del balloon (il fumetto) indica che le parole sono pronunciate da qualcuno che non è rappresentato nella scena.
Questa tecnica comunica inoltre l’allontanamento (o talvolta l’avvicinamento) del personaggio dalla scena. Quindi, implicitamente, esprime un’azione di movimento senza che questa venga rappresentata graficamente.
Se non fosse ancora chiaro, la sintesi è la cifra comunicativa del fumetto comico a strisce. Un genere di cui l’autore deve essere sempre ben cosciente che il consumo da parte del lettore si svolge in pochi secondi, seppure per lui, il concepimento di una striscia ha comportato il lavoro di ore.
Dovrebbe ora essere chiaro che, come già accennato, il fumetto è solo in apparenza un linguaggio che nasce dalla somma di due altri linguaggi (quello grafico e il lettering). Quelle che ho appena descritto infatti sono regole che non appartengono ai due linguaggi separati. Sono regole specifiche del fumetto, che per il fatto di avere regole sintattiche proprie, è da considerare un linguaggio a sé che richiede competenze da parte di chi lo utilizza. Competenze che non si acquisiscono nell’utilizzo dei due linguaggi separati.
Per quanto concerne invece i contenuti, regole non esistono. Nella mia esperienza mi resi presto conto che nessuno avrebbe mai potuto scrivere un manuale per inventare battute spiritose. E questo per la natura stessa della battuta, che funziona (fa ridere) solo quando la senti per la prima volta.
Questo significa che, se hai trovato un meccanismo che produce umorismo, non potrai utilizzarlo due volte.
Quando riesci a trovare un modo per far ridere, da una parte sei fortunato perché hai avuto un’intuizione, dall’altra quella è un’intuizione in meno che potrai avere in futuro, perché per te quella ha già dato l’unico risultato possibile.
E forse questo esercizio di doversi rinnovare di continuo è stata la lezione migliore che ho ricevuto da quel mondo.